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«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Sono le prime parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di cui ricorrono i 75 anni il 10 dicembre. Tra questi ci sono il diritto alla vita, alla libertà di coscienza, di pensiero, di religione, a non subire schiavitù e tortura... Pochi esempi di un lungo elenco che, a dispetto dell’universalità affermata, vediamo sovente negati nel mondo.
Abbiamo chiesto a Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e direttore del Laboratorio dei diritti fondamentali (Ldf) di Torino, di aiutarci a capire.
Dottor Zagrebelsky, perché la Dichiarazione è importante?
«Per la prima volta furono fissati principi fondamentali in difesa delle persone. Il fatto che spesso non siano attuati, non li mette in discussione, ma sollecita a renderli effettivi. La rivendicazione di identità sovraniste è fuori dal tempo», dice l’ex giudice della Corte europea «Per la prima volta a livello internazionale si scrive una dichiarazione che stabilisce quali sono i diritti delle persone, dei popoli, degli Stati: diritti fondamentali, non derogabili dalle prassi e dalle legislazioni nazionali. È un documento di intento politico, non vincolante per gli Stati: lo saranno i trattati successivi e, per l’Europa, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950. Ma non sottovaluterei l’importanza del passo che si fa mettendo sulla carta i concetti: prima che nel 1789 in Francia, con la Rivoluzione, si dichiarassero gli uomini uguali, vigeva un regime, mai messo in discussione, in cui la diseguaglianza era sancita per legge».
È vero che ha una prospettiva occidentale?
«È stata chiamata universale ma non era tale: nelle Nazioni Unite c’erano solo 58 Paesi e il processo di decolonizzazione non era iniziato. Oggi i Paesi Onu sono 193, ma tuttora larghe parti del mondo, con culture diverse da quella occidentale, hanno altre concezioni: c’è una Carta africana e anche una Carta araba; c’è la dichiarazione interamericana dei Paesi latinoamericani. La Cina e l’India non partecipano di questa universalità. Il diritto alla vita, sulla carta da tutti accettato, non impedisce a Iran, Stati Uniti e Cina di applicare la pena di morte. L’universalità è una proclamazione etica che nel concreto ha tanta strada da fare».
La tutela dei diritti umani sta regredendo?
«Crescono la durata e la durezza delle guerre, non solo in Ucraina e in Medio Oriente, ma anche in tanti conflitti dimenticati in Africa, e in guerra i diritti regrediscono nella loro concretezza: nessuno mette in discussione la Dichiarazione del 1948, semplicemente la si ignora».
È più difficile tutelare i diritti dell’individuo rispetto alla famiglia in contesti plurali?
«Per un verso sì, ma almeno in Europa le Costituzioni nazionali, la Dichiarazione dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo con la Corte di Strasburgo fanno sì che il cittadino abbia un giudice cui rivolgersi per tutelare i suoi diritti fondamentali, se lo Stato glieli nega: un principio che funziona, pur con lentezze dovute ai tanti ricorsi».
Diritti e democrazia non si “esportano”: la strada è attenderne la rivendicazione autoctona, come vediamo in Iran?
«Certamente, tenendo conto che anche i movimenti di popolazioni interni a uno Stato sono connotati da una cultura. La stessa idea che la Dichiarazione dei diritti umani debba espandersi in tutto il globo è occidentale. In Iran, ma anche in Asia orientale, la concezione del rapporto individuo-famiglia, individuo-Stato è molto diversa da quella europea che dà spazio alla persona, come individuo titolare di diritti anche all’interno della famiglia. Difficile immaginare un mutamento di culture radicate in tempi prevedibili».
In che modo questo agisce in contesti in cui le culture si mescolano?
«Servirebbero da parte di tutti rispetto e tolleranza per le culture altrui, il che non è ovvio, come episodi di violenza reciproca dimostrano: quando si mescolano culture molto diverse la tensione è facile. In Europa la tolleranza trova un limite nei principi costituzionali intoccabili: chi proviene da culture, religioni, tradizioni diverse deve adattarsi, non è ammesso violare i diritti di un individuo in nome di un’altra cultura».
Nemmeno a casa nostra però tutti i principi paiono acquisiti…
«Anche in Italia, in famiglia, sul lavoro, vediamo applicata poco e male nei rapporti uomo-donna la parità scritta nell’articolo 3 della Costituzione. Notarlo non mette in discussione il principio dell’eguaglianza, ma sollecita un lavoro per renderlo effettivo».
In Occidente la rivendicazione di diritti individuali si amplia, che cosa comporta?
«C’è chi sostiene che c’è un diritto fondamentale a Internet, perché di lì passa la libertà di informazione, ma, via via che nuovi diritti si inseriscono nel quadro delineatosi a partire dal Settecento, si coglie sconcerto: non sull’importanza di Internet, ma sul fatto di chiamarlo diritto fondamentale. Se li espandiamo all’infinito rischiamo di banalizzare quel nocciolo duro (vita, libertà di espressione eccetera): anche perché senza un giudice non c’è un diritto, ma un’esigenza politica per cui si combatte».
Controspinte sovraniste vivono il diritto europeo con insofferenza, si torna indietro?
«In diversi Stati parte dell’opinione pubblica rivendica identità nazionali contro le cosiddette “pretese di Bruxelles”; dimenticano che a Bruxelles c’è un Parlamento eletto da tutti. In Polonia, in Ungheria, ma anche in Italia, c’è chi rifiuta il progetto europeo di armonizzazione dei diritti fondamentali reso necessario dalla libertà di circolazione. Si pensi alla libertà di movimento per ragioni di lavoro o studio: i ragazzi si muovono, poi si sposano, formano famiglie con figli altrove, senza una legislazione armonica sorgono continuamente problemi. Nella realtà siamo già cittadini europei. Queste chiusure sono fuori dal tempo, la vita va più veloce».
Anche la separazione dei poteri è in discussione?
«Per fortuna in Europa il tema è minoritario, riguarda soprattutto Polonia e Ungheria, ma occorre vigilare perché si fa presto a tornare indietro: si pensi al linguaggio e alla sostanza dell’antisemitismo. Si sarebbe detto impensabile che certe parole e certi concetti tornassero e invece… Bisogna studiare la storia: l’Ue non è nata solo per finalità economiche, ma anche su presupposti ideali comuni. E perché la Shoah non venisse dimenticata o ignorata».



