La statistica talvolta ha un suo valore simbolico. Nel Nuovo Testamento la radice del termine greco che indica l’amore, agápe, risuona ben 320 volte (116 volte come sostantivo, 143 volte come verbo e 61 come aggettivo). Siamo, quindi, in presenza di una categoria ideale fondamentale. Contrariamente a quanto si crede, essa attinge la sua realtà già nell’Antico Testamento, come ricorda Gesù a quello scriba che lo interroga sul «primo di tutti i comandamenti»: la risposta è in quell’«Amerai il Signore Dio tuo… e amerai il prossimo tuo» che è la citazione di due passi biblici (Marco 12,29-31; Deuteronomio 6,4-5; Levitico 19,18).
La voce di Mosè e quella di Cristo parlano, dunque, all’unisono e a essi si assocerà anche san Paolo con la stessa proposta (Romani 13,9-10). In ebraico il termine che meglio riflette questo amore divino e umano è hesed – che, a suo tempo, abbiamo presentato nel vocabolario ebraico allestito lo scorso anno su queste pagine – ed esprime la gamma variegata di sentimenti e di impegni che intercorrono tra due persone legate da un’alleanza d’amore. Dio, secondo il libro della Sapienza, «ama tutte le realtà che esistono ed è il Signore amante della vita» (11,24.26). La sua è una rivelazione d’amore: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo il mio hesed», ossia il mio amore fedele, dice il Signore a Israele (Geremia 31,3).
Il cristianesimo raccoglie questo messaggio della Prima Alleanza e ne fa quasi il suo vessillo coniando quella straordinaria definizione: «Dio è amore» (1Giovanni 4,8.16), è «il Dio dell’amore» (2Corinzi 13,11). La stessa missione di Cristo è quella di rivelare che «Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito» (Giovanni 3,16); e infatti egli «passò facendo del bene e risanando tutti i sofferenti» (Atti 10,38). A questo amore divino, che non ignora la giustizia come segno della verità dell’amore, deve corrispondere il nostro amore: «Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci… Se ci amiamo, Dio dimora in noi e il suo amore è perfetto in noi» (1Giovanni 4,11-12).
Due sono le dimensioni di questo amore, come suggeriva Gesù allo scriba sopra citato. Esso deve innanzitutto orientarsi verso Dio Padre, accogliendo la sua parola e la sua legge. «Ti amo, Signore, mia forza» (Salmo 18,2): può essere questa la comune professione d’amore dell’ebreo e del cristiano e il Cantico dei cantici o la storia del profeta Osea (cc. 1-3) sono la parabola simbolica di questo amore che conosce l’intimità ma anche il tempo della prova e del nostro tradimento.
L’amore deve, poi, proiettarsi verso i fratelli: «Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1Giovanni 4,21). Cristo spingerà il precetto biblico antico fino alle sue estreme conseguenze, portando l’amore verso la vetta suprema del perdono del nemico e della donazione di sé: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13). Questa generosità, che si estende soprattutto verso gli ultimi, i poveri e i sofferenti, sarà l’argomento decisivo del giudizio divino sull’umanità alla fine della storia, perché – dirà Cristo – «tutto quello che avete fatto a questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,40).
Abbiamo iniziato con la parola greca agápe, tipica del Nuovo Testamento (la classicità greca preferiva il vocabolo eros), concludiamo col nostro termine «amore». Esso deriva da una radice indoeuropea, kam, che significa «amare» e «volere»: in sanscrito «ti amo» si dice kamami e in persiano hamana. In latino, oltre ad amo, c’è anche diligo, suggestivo nel suo valore di base: io «scelgo» te.