C'è un termine liturgico che è abbastanza noto, l’«accolito », cioè colui che presta il suo servizio durante le celebrazioni. Alla base c’è il verbo greco, in verità un po’ difficile, che vogliamo proporre all’interno della nostra selezione di parole originarie fondamentali del Nuovo Testamento. Si tratta del vocabolo akolouthéô, presente 90 volte e il cui significato è «seguire». Per descrivere il suo valore religioso, ricorriamo a una raffigurazione evangelica molto suggestiva, posta proprio agli inizi del ministero pubblico di Gesù.
La scena, che ha come fondale il Lago di Tiberiade, è per molti aspetti emblematica: Cristo passa e interpella quei pescatori, protesi nel loro lavoro impegnativo, e trasforma la loro professione di uomini di lago in “pescatori di uomini”, un’espressione originale che ha solo qualche eco nell’Antico Testamento (il profeta Abacuc dipinge Dio come il grande Pescatore che «tratta gli uomini come pesci del mare, prendendoli all’amo e raccogliendoli nella rete, godendone soddisfatto» 1,14-15). Questa nuova professione-missione comprende per quegli uomini una svolta: «Lasciate le reti, lo seguirono» (Matteo 4,20). Ecco, il verbo «seguire» diventa significativo per definire il discepolo di Cristo.
Egli è colui che «segue» il suo Signore e maestro non solo sulle strade del mondo ma anche in una «sequela» ben più radicale, quella dell’esistenza e della donazione di sé. Questo tema affiorava già nell’Antico Testamento e aveva due profili antitetici. Da un lato, infatti, c’era la sequela tenebrosa e perversa, quella che era incarnata dall’idolatria: era un «seguire dèi stranieri» o «esseri vani e inutili» o «amanti», come si dice spesso nella Bibbia, con variazioni che denotano l’aspetto profondo e complesso dell’adesione a un’altra scelta religiosa. Oppure si aveva il «seguire le perverse inclinazioni del cuore» (Baruc 1,22), cioè una serie di opzioni immorali e aberranti.
D’altro lato, c’era invece la luminosa sequela del Signore, della sua legge, della giustizia, della sua via, della sua verità: sono espressioni diverse, che risuonano a più riprese e che illustrano una scelta di vita che genera pace e serenità. Geremia mette in bocca a Dio questo dolce soliloquio: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata. Israele era cosa sacra al Signore, la primizia del suo raccolto: quanti ne mangiavano dovevano pagarla, la sventura si abbatteva su di loro» (2,2-3). Si entra, così, nella scena dalla quale siamo partiti e che verrà riedita, naturalmente in forme differenti e con personaggi diversi, in altre pagine evangeliche. A «seguire » Gesù saranno altri discepoli, oppure malati da lui sanati, alcune donne, talora una folla, e questa sequela indica sempre un’adesione alla parola del Maestro. Una scelta impegnativa e radicale che impedisce di attardarsi in saluti e persino in cerimonie funebri (si legga la pagina con tre scenette sul tema presenti in Luca 9,57-62). Alla fine i chiamati da Gesù possono confessare: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (Marco 10,28).
Eppure Cristo chiederà ancora qualcosa di più decisivo e totale ed è ciò che è espresso in una frase forte che Matteo formula così: «Chi non prendela sua croce e mi segue, non è degno di me» (10,38), proponendo al discepolo di incamminarsi anche lui sull’erta ardua del Calvario, ossia del martirio. Luca, invece, renderà la stessa frase in questa forma: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (9,23), suggerendo una sequela severa e lacerante nella vita quotidiana. Sappiamo, però, e Paolo ce lo ricorda, che «su quanti seguiranno la norma [del Vangelo] sarà pace e misericordia, così come è accaduto a tutto l’Israele di Dio» (Galati 6,16).