Nelle più importanti biblioteche è solitamente presente, in una serie di grossi tomi, il Grande Dizionario della lingua italiana, che è stato diretto da Salvatore Battaglia (1904-1971) e da Giorgio Bárberi Squarotti (1929-2017). Se andiamo a sfogliare il 21° volume alla voce «vizio» ci imbattiamo in questa definizione: «Abituale disposizione al male, al peccato, o genericamente ad assumere abitudini e comportamenti moralmente riprovati». È facile notare che la sottolineatura va sul termine «abitudine». Al centro c’è, quindi, non un singolo atto perverso, ma un’immoralità costante, una depravazione, una degenerazione, una corruzione sistematica.
Questo naturalmente vale anche per la virtù che non si riassume in una sola azione buona e giusta, ma in una pratica coerente e continuata del bene, della giustizia, della verità e dell’amore. Ma – ed è quello che ora vogliamo approfondire – alla sorgente di questa buona o cattiva abitudine c’è uno snodo capitale, la libertà. Lapidario è Mosè davanti a Israele: «Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male… Scegli dunque la vita!» (Deuteronomio 30,15.19).
Più vivace e articolato è un sapiente biblico del II sec. a.C., il Siracide: «In principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti; l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (15,14-17). Il pensiero corre, infatti, «in principio», ossia nelle prime pagine della Genesi quando l’uomo e la donna, usciti dalle mani del Creatore, sono collocati all’ombra di un albero simbolico denominato «della conoscenza del bene e del male» (c. 3).
A differenza delle altre creature che obbediscono solo a leggi fisiche o a istinti, l’umanità ha in sé una qualità divina, quella appunto della libertà: può decidere di accogliere la norma morale delineata da Dio secondo le due categorie fondamentali del bene e del male, oppure scegliere di strappare il frutto di quell’albero simbolico e sostituirlo con una propria legge. Se si procede lungo la prima via, vivendo la moralità oggettiva, si diventa virtuosi; se si opta di incamminarsi sull’altro percorso deviato, si piomba nel vizio che è descritto nel c. 3 della Genesi e che è stato rubricato sotto il titolo tradizionale di «peccato originale».
È interessante notare che nella stessa civiltà classica greco-romana si conosceva il mito di «Ercole al crocevia». Questo eroe giunge all’incrocio di due strade che si biforcano. Davanti a una si erge una donna che dichiara di chiamarsi in greco Aretè, cioè «Virtù»; in mezzo all’altra via si para una donna che reca come nome in fronte Kakìa, ossia «Vizio, Cattiveria». Sta ad Ercole imboccare la strada della Virtù e scartare quella del Male. Certo, la questione è più complicata di quanto sembri a prima vista perché la nostra è una libertà non perfetta come quella divina, ma limitata, fragile e ferita.
Non possiamo sviluppare una riflessione sistematica su questo tema molto complesso. Sappiamo che la cultura moderna ha approfondito i limiti della nostra libertà attraverso la psicologia e la psicoanalisi. Si è, così, sviluppata una prospettiva differente che spesso ha considerato il vizio non tanto come una realtà negativa dell’anima morale, ma solo una malattia della psiche. Si usciva, così, dall’orizzonte etico per entrare in quello patologico. Riserveremo un cenno a questo aspetto, evidentemente in modo solo sommario: rimandiamo, allora, i nostri lettori alla prossima puntata.