I due vocaboli sono di per sé sinonimi, ma nella Bibbia hanno un significato divergente: il primo si riferisce agli israeliti, che Dio ha eletto sua proprietà, il secondo agli stranieri
Questa volta proponiamo due parole ebraiche che, pur essendo di per sé sinonimiche, acquistano un signifcato divergente. Da un lato ‘am (l’apostrofo inverso indica una lettera aspirata dell’alfabeto ebraico di difficile pronuncia per noi), «popolo », termine presente ben 1.868 volte nell’Antico Testamento, e gôjim, un plurale usato in prevalenza (438 volte) rispetto al singolare (123 volte) che rimanda alle «genti, nazioni». Il primo vocabolo è prevalentemente – anche se non in modo esclusivo – riservato a Israele, «il popolo eletto», il secondo è assegnato alle popolazioni straniere, spesso in rapporto di conflittualità con gli Ebrei, tant’è vero che le pagine profetiche non di rado sono costellate di «oracoli contro le nazioni», i gôjim appunto, tanto da far acquisire al termine una connotazione persino spregiativa.
Lo stesso Gesù rivela questa sensibilità quando alla donna sirofenicia, che lo implora di guarirle la figlia, replica duramente comparando gli stranieri ai «cani» impuri, secondo il linguaggio del tempo: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» (Matteo 15,26). Non mancano, però, testi biblici che aprono anche ai gôjim svelando che pure di essi Dio, Creatore universale, si cura e li spinge a una vita giusta così da essere ammessi alla sua salvezza. Esemplare è il racconto di Giona che contrappone al profeta gretto e integralista l’amore del Signore che si preoccupa anche di Ninive, la capitale assira, considerata tradizionale avversaria del popolo ebraico. Anzi, nel libro del profeta Isaia si arriva a leggere questa benedizione divina: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (19,25).
Il termine ‘am, invece, contraddistingue prevalentemente il popolo che ha stipulato l’alleanza con Dio al Sinai: «Tu sei un popolo (‘am) consacrato al Signore, tuo Dio, che ti ha scelto per essere il popolo sua proprietà tra tutti i popoli che sono sulla terra» (Deuteronomio 7,6). In ebraico «proprietà » è segullah e designa il gregge di diretto possesso del pastore, non quello pascolato per conto di altri, e quindi particolarmente caro. Questo legame di appartenenza è espresso proprio attraverso il tema dell’alleanza sinaitica. Ora, la formula tipica di questo patto tra il Signore e Israele, spesso reiterata nell’Antico Testamento, suona così: «Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo (‘am)» (Levitico 26,12). È per questo che il Signore è raffigurato come re, come pastore, come capo, come guida, proprio per celebrare il legame che lo unisce in modo indissolubile al suo popolo. È in questa luce che si afferma che Dio ha cura, benedice, rende fecondo, sfama e benefica Israele, suo popolo. Tuttavia non si può ignorare anche un aspetto negativo sempre in agguato, causato dalla infedeltà del popolo che sceglie altri dèi, rinnegando il suo Signore.
Si ha, allora, quella lunga serie di espressioni e di eventi in cui Dio giudica e punisce il suo popolo. Israele è «un popolo consacrato al Signore» e «separato da tutti gli altri popoli» (Deuteronomio 14,2; Levitico 20,24). Col peccato di idolatria si dissacra e si riduce ad essere una nazione qualsiasi sulla quale piomba la condanna divina. Ma, appena Israele si pente, l’amore eterno divino si mette subito alla ricerca del suo popolo, «perdonando la sua iniquità » e «non respingendolo» da sé (Salmi 85,3; 94,14). Il desiderio di Dio rimane, allora, sempre quello formulato da san Paolo: «formarsi un popolo puro che gli appartenga» (Tito 2,14).