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venerdì 09 giugno 2023
 
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Cardinale arcivescovo e biblista

BASÀR, NÈFESH: carne/ essere vivente, anima

Il significato dei due termini è più sfumato del nostro. Il primo indica la fragilità e caducità in quanto creature; il secondo il principio vitale, l’io della persona

Questa volta appaiamo tra loro due parole ebraiche che, però, non sono da intendere sulla base di un nostro preconcetto occidentale. Se, infatti, noi evochiamo la coppia corpo-anima, pensiamo subito a un contrasto tra materialità o fisicità da un lato e spiritualità o interiorità dall’altro. I due termini ebraici che abbiamo proposto, pur traducendoli con il nostro linguaggio, hanno un valore originale e molto più sfumato, tant’è vero che spesso si può leggere che la Bibbia non si interessa molto dell’anima ma più dell’essere vivente nella compattezza della sua identità. Sia pure in modo essenziale, definiamo allora l’orizzonte di questi due vocaboli biblici. Il primo, basàr, presente 270 volte, indica la fragilità e la caducità del nostro essere creature mortali. Intensa è l’espressione del profeta Isaia: «Ogni carne (basàr) è come l’erba e tutta la sua bellezza è come un fiore del campo» (40,6). È solo appoggiandosi su Dio che l’umanità limitata e debole può trovare stabilità: solo così «gioisce il mio cuore ed esulta il mio fegato (simbolo dell’interiorità profonda), anche la mia carne (basàr) riposa al sicuro» (Salmo 16,9). È, invece, fondarsi sulla sabbia quando ci si illude di essere salvi scegliendo come sostegno la potenza e la forza, anche militare, come ammonisce ancora Isaia rivolgendosi al re di Giuda tentato dall’alleanza con la superpotenza dell’Egitto: «L’Egiziano è un uomo e non un dio, i suoi cavalli sono carne (basàr) e non spirito» (31,3). La realtà che tutti accomuna è, quindi, questa dimensione creaturale limitata, ed è per questo che l’uomo di fronte alla sua donna esclama: «Questa volta essa è carne della mia carne» (Genesi 2,23), cioè identica a me stesso. Passiamo ora al secondo termine, nèfesh, presente 754 volte, che sottende un concetto ben più complesso della frequente traduzione «anima». Partiamo da un elemento primordiale: la parola può indicare anche la «gola» dalla quale esce il respiro vitale. Questo è il senso primario, considerato il tema della sete, di un’appassionata invocazione salmica: «Il mio nèfesh/gola ha sete di Dio, del Dio vivente (Salmo 42,3). È evidente, però, che è coinvolto un senso simbolico per cui è legittima anche la versione: «La mia anima ha sete di Dio». Nèfesh è, però, anche il principio vitale che costituisce la nostra identità di creature viventi: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente (nèfesh)» (Genesi 2,7). Progressivamente il vocabolo è destinato a identificare l’«io» della persona, la sua stessa esistenza, come accade per il Servo del Signore cantato da Isaia: «offrirà il suo nèfesh (cioè se stesso, la sua vita) in sacrificio di espiazione» (53,10). O come si dice persino di Dio stesso che «giura sul suo nèfesh», cioè su se stesso (Geremia 51,14). In sintesi possiamo dire che il nèfesh è una realtà dalle molteplici sfaccettature, destinata a definire la nostra qualità di creature viventi. È la nostra corporeità viva, tant’è vero che si afferma che «il sangue è nèfesh e tu non devi mangiare il nèfesh insieme con la carne (bàsar)» (Deuteronomio 12,23). È sulla lettura letteralista di questo passo, destinato in realtà a tutelare la vita, che i Testimoni di Geova proibiscono la trasfusione di sangue. Nèfesh è anche la brama, il desiderio; è l’io che invoca Dio («Benedici il Signore, mio nèfesh, quanto è in me benedica il suo santo nome», Salmo 103,1) e, quindi, è anche la nostra spiritualità. Come è stato scritto da uno studioso, «Nèfesh è l’essere stesso dell’uomo e non un suo possesso».


19 agosto 2021

 
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