Questa domenica suggella l’anno liturgico elevando quasi nell’abside del tempo l’icona solenne di Cristo Re. È, perciò, obbligatoria la parola greca neotestamentaria da proporre: basiléia, «regno», presente 162 volte, a cui si associa spontaneamente basiléus, «re», citato 115 volte, a partire dal re Davide che si affaccia nella genealogia di Gesù Cristo (Matteo 1,6). Ebbene, quando lo stesso Gesù appare sulla ribalta del suo ministero pubblico in Galilea le prime parole che proclama sono: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Matteo 4,17). Egli echeggiava le stesse parole pronunziate dal suo Precursore, il Battista (3,2).
Il centro dell’annunzio cristiano ruoterà appunto attorno a questo simbolo che era già stato adottato nell’Antico Testamento nel suo duplice significato, attivo di «governo e signoria» divina e passivo di popolo (o della terra) governato con giustizia dal Signore. Naturalmente l’immagine era stata desunta dalle civiltà dell’antico Vicino Oriente e dalla stessa esperienza di Israele che aveva scelto l’istituto monarchico attorno alla metà dell’XI sec. a.C. Anzi, la dinastia davidica era stata considerata come la via storica al messianismo. Ora il concetto di «regno di Dio» («regno dei cieli» è una forma cara a Matteo per evitare, secondo lo stile giudaico, l’uso del nome divino, sacro e impronunciabile) vuole indicare soprattutto il progetto di una società giusta, di una creazione armonica, così come è concepita e voluta da Dio. Un progetto purtroppo incrinato e devastato dal peccato dell’uomo. I Salmi che cantano il regno di Dio (47; 93; 96-99) esaltano l’intervento del Signore re per dar origine a quel «regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace» che è appunto celebrato come speranza nella liturgia della solennità di Cristo Re.
Sì, perché Gesù non solo proclama l’inaugurazione del regno di Dio nelle sue parabole e nella sua opera salvifica, ma egli stesso è definito come re nella grandiosa scena del giudizio finale, tratteggiata da Matteo: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria… Allora il re dirà a quelli che sono alla sua destra…» (25,31.34). Egli è il basiléus greco, il sovrano che ricopre lo stesso compito che era di Dio nell’Antico Testamento: «Il Signore viene a giudicare la terra: giudicherà il mondo con giustizia e con verità tutte le genti… perché giustizia e diritto sono la base del suo trono» (Salmi 96,13; 97,2; 98,9).
Quanto il suo governo sia diverso da quello dei sovrani di questo mondo, Gesù lo dichiara esplicitamente al rappresentante del potere imperiale romano, il procuratore Ponzio Pilato, in una pagina del Vangelo di Giovanni: «Il mio regno non è di questo mondo… Io sono re… per rendere testimonianza alla verità» (si legga 18,33-37). Per questo lo stesso evangelista Giovanni presenterà per una dozzina di volte il tema della regalità di Cristo durante la sua passione, trasformando la croce nel trono della gloria del Crocifisso. Cristo è, quindi, un re che non si comporta come «i re delle nazioni che dominano e si fanno chiamare benefattori» (Luca 22,25). «Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Marco 10,45). Egli si sacrifica e si fa circondare non dai potenti ma dagli ultimi della terra, condividendone la sorte.
È questo il regno di Dio, simile a «un granellino di senapa…, il più piccolo di tutti i semi, oppure al lievito impastato con la farina» della storia umana (Matteo 13,31-33). Nascosto ma efficace, celato nelle pieghe della terra ma fecondo. È questo il regno di Dio che noi invochiamo nella preghiera del Padre nostro: «Venga il tuo regno!». Ed è questo l’annuncio che viene ripetuto in nome di Cristo dai suoi discepoli: «Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino» (Matteo 10,7).