Il primo termine è il più usato nell’Antico Testamento dopo il nome sacro divino, mentre l’altro, nella versione aramaica dal tono più familiare, è adoperato da Gesù e insegnato ai discepoli
Può essere una sorpresa: la parola ebraica più usata nell’Antico Testamento – dopo il nome sacro di Dio (Jahweh) che risuona 6.828 volte – è ben, «figlio», presente 4.929 volte. La famiglia, nella sua continuità generazionale, è quindi un elemento fondamentale nella concezione biblica. È poi molto signicativo che ben sia da collegare nella sua etimologia al verbo ebraico banah, «costruire, edicare». Così come ci sono le mura di pietra della casa, così ci sono le pietre viventi che sono i figli.
Suggestivo è lo sviluppo di questa immagine da parte del Salmista: «Se il Signore non costruisce (banah) la casa, invano si affaticano i costruttori… Ecco, eredità del Signore sono i figli (ben), sua ricompensa è il frutto del grembo. Come frecce in mano a un guerriero sono i figli (ben) avuti in giovinezza» (Salmo 127, 1.3-4). In un’epoca di crisi demografica come la nostra, nella quale le culle rimangono vuote, dobbiamo far riecheggiare questo appello caloroso. Esso ha una rappresentazione pittoresca in un altro Salmo: «I nostri figli siano come piante cresciute con vigore fin dalla loro giovinezza; le nostre figlie come colonne d’angolo, scolpite per adornare un palazzo» (144,12).
In questo quadretto poetico entrano in scena anche le figlie, in ebraico bat, un termine presente 579 volte, così come altrove fanno capolino i fratelli (’ah) e la madre (’em). Ma, in una cultura di taglio maschilista come era quella dell’antico Vicino Oriente, a predominare è il ben, «figlio», che entra anche nei nomi di persona, come Ben-iamino che in ebraico signica «figlio della destra», cioè della fortuna (vedi Genesi 35,18). Ben viene usato anche in senso metaforico, come nelle espressioni «figlio dell’uomo» (caro al profeta Ezechiele e allo stesso Gesù), «figlio della luce», «figlio della Geenna », cioè dell’inferno, «figlio della perdizione » (Giuda, il traditore di Gesù).
Sempre all’interno di una civiltà patriarcale, fondamentale è l’altro vocabolo che proponiamo, ’ab, «padre», che risuona 1.211 volte nella Bibbia. Il termine, però, appare non di rado in connessione con la moglie/madre, a partire dal Decalogo con il celebre quarto comandamento: «Onora tuo padre (’ab) e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Esodo 20,12). Deliziosa è la scena evocata dal Salmo 128: «La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi gli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa» (v. 3).
Anche nell’Antico Testamento Dio è invocato come «padre», innanzitutto dal re-messia: «Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (Salmo 89,27). Naturalmente per il cristiano la paternità divina è celebrata nella preghiera distintiva dei discepoli di Gesù, il Padre Nostro. Ma un cenno specico merita la parola ’abbà, che è la variante di ’ab nella lingua sorella dell’ebraico, cioè l’aramaico, ove però ha il valore familiare di «papà, babbo». Si comprende, allora, l’originalità di Gesù nell’usare questo termine nei confronti del suo Padre celeste, soprattutto alle soglie della morte, nel Getsemani: «’Abbà, Padre, tutto è possibile a te» (Marco 14,36). San Paolo, poi, insegnerà ai cristiani a imitare Cristo in questo atteggiamento di fiducia e di familiarità nei confronti di Dio: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende gli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: ’Abbà, Padre!» (Romani 8,15).