Ecco due parole greche importanti che tutti conoscono, per lo meno nei loro derivati italiani, ad esempio «biologia» e «zoologia». Nella cultura classica bíos designava le modalità e la qualità, anche profonda, con cui si consuma l’esistenza, mentre zôê rimandava alla vita in senso oggettivo, in quanto essa appartiene all’universalità di tutti gli esseri viventi. Nel Nuovo Testamento questa distinzione è talora invertita così che, ad esempio, la «vita eterna», cioè la qualità divina che viene donata da Dio al giusto in comunione con lui, è definita come zôê.
Sta di fatto che la Bibbia esalta entrambe le dimensioni, la fisica e la spirituale, comunque vengano espresse, e lo fa in mille forme che è difficile riassumere in queste poche righe. A livello statistico, si pensi che bíos è presente nel Nuovo Testamento solo 10 volte, mentre zôê 135 e zaô, «vivere», 140, con una serie di derivati. È, perciò, evidente che il rilievo maggiore lo ha il profilo interiore, espresso con zôê; tuttavia la vita fisica appare agli inizi stessi della Bibbia, quando «il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Genesi 2,7).
Dobbiamo, perciò, ribadire che l’intangibilità della vita concreta – rappresentata dall’antica concezione semitica del sangue che non dev’essere né versato né toccato né mangiato (Genesi 9,4-6) – è una tesi rilevante già nell’Antico Testamento, sia pure coi limiti socio-culturali della legittimazione della pena di morte. Il Nuovo Testamento va anche oltre: il corpo – afferma san Paolo – è «il tempio dello Spirito Santo che è in noi e che riceviamo da Dio» (1Corinzi 6,19). In questa luce la vita fisica è amata, è sentita come sacra e come un dono prezioso di Dio, tant’è vero che il titolo di Vivente è proprio di Dio stesso e si ha la consapevolezza che «Dio ha creato tutto per l’esistenza, le creature del mondo sono sane e in esse non c’è veleno di morte» (Sapienza 1,14).
La morte e la malattia vengono lette in connessione col peccato, anche se talora con una certa rigidità (la cosiddetta «teoria della retribuzione» che vede un nesso meccanico tra colpa e dolore), mentre la vita è per eccellenza espressione di salvezza. È significativo che l’opera principale di Cristo sia stata quella di operare guarigioni, riportando la vita umana alla sua pienezza.
C’è, però, una seconda traiettoria da seguire: essa ci mostra che quella fisica è il segno di un’altra vita che fiorisce da sorgenti trascendenti. Nel battesimo cristiano si riceve un altro respiro-spirito che ci dona una vita che partecipa di quella stessa di Dio, tant’è vero che diveniamo suoi figli adottivi. È quella che san Paolo chiama vita secondo lo Spirito: essa è partecipazione alla vita del Cristo risorto, i cui frutti sono «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5,22).
Nel Verbo di Dio «è la vita e la vita è la luce degli uomini», afferma san Giovanni (1,4) il quale adotta la citata formula «vita eterna» per definire la vita divina a noi donata per grazia: «Dio ci ha dato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio non ha la vita» (1Giovanni 5,11-12). Per ottenere questa vita che non conosce morte può essere necessario rinunciare alla vita fisica in un atto d’amore: «Non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13). E Cristo è il grande testimone di questa scelta che ha il suo segno permanente nel «pane di vita», il suo corpo e il suo sangue a noi donato perché irrompa in noi la vita divina.