«II l vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti». Può sembrare paradossale questa battuta che uno scrittore piuttosto acre e sarcastico come l’austriaco Karl Kraus nel 1909 annotava nei suoi Detti e contraddetti. Eppure in essa c’è un’anima di verità. Come accade appunto al carbone e al diamante che hanno alla base la comune componente del carbonio, così alla radice del vizio e della virtù ci sono esigenze primarie dell’essere umano. Spieghiamoci con un paio di esempi.
L’indignazione per le ingiustizie e il male può essere certamente una virtù perché ci fa schierare dalla parte del bene e della verità: Gesù stesso ne è testimone quando scaglia con veemenza i suoi «guai a voi!» contro i ricchi sazi, gaudenti, potenti (Luca 6,24-26) o contro l’ipocrisia religiosa (Matteo 23,1-33). Si tratta, infatti, di un’appassionata difesa della giustizia violata e di una protesta coerente contro il sopruso, la prevaricazione, la falsità, l’illegalità. Ma quando la persona reagisce a un’offesa o a un atto sgradito con una bufera irrazionale e incontrollabile di parole e di atti, quella reazione diventa un peccato, l’ira, che – come vedremo in futuro – è il quarto vizio capitale.
Un altro esempio. Pensiamo al cibo e alla bevanda che sono una necessità primaria per la stessa sopravvivenza. Anzi, essi possono diventare l’espressione di un legame di amicizia, come accade nei pranzi nuziali o in quelli festivi nei quali si vuole comunicare la propria gioia agli altri. In alcune culture esistono persino i pranzi funebri (il cosiddetto «consólo» praticato in alcune regioni italiane): con essi si trasmette il proprio dolore e si desidera offrire una vicinanza a chi piange, e ciò avviene attraverso la condivisione del cibo. Detto questo è, però, evidente che l’eccesso con una «grande abbuffata» fino alla nausea, come accade nel famoso film omonimo di Marco Ferreri (1973), oppure con il coma etilico a cui vanno incontro purtroppo anche molti giovani, trasforma il mangiare e il bere nel vizio capitale della «gola». Un famoso motto latino giustamente ammoniva: Non ut edam vivo, sed ut vivam edo, «non vivo per mangiare, ma mangio per vivere».
Nel viaggio all’interno della regione oscura dei vizi, che abbiamo intrapreso nella nostra rubrica, dovremo perciò procedere con rigore e attenzione, facendo tendenzialmente un costante esame di coscienza, proprio per verificare quando si varca quel crinale tra il giusto e la degenerazione. D’altronde, è vero quello che scriveva nel 1664 un famoso scrittore moralista francese, François La Rochefoucauld, nelle sue Massime: «I vizi ci aspettano nel corso della vita come ospiti dai quali prima o poi dobbiamo passare. Dubito che l’esperienza servirebbe a farceli evitare nel caso ci fosse concesso di fare due volte la stessa strada».
Quando si è di fronte alla strada comoda e larga del vizio, abbellita di luci e colori e segnata da cartelli invitanti, girare verso il sentiero d’altura, netto e ripido, della virtù richiede una decisione gravosa. Entra così in scena una componente fondamentale dell’essere umano sulla quale dovremo ritornare, ossia la libertà di scelta. Non dimentichiamo, infatti, che Dante – per bocca di Beatrice – considerava l’umanità che degenera come «pecore matte» (Paradiso V, 80). Ma questa follia può essere, sì, talora una patologia, ma solitamente è un comportamento libero e cosciente che perverte o calpesta i valori morali.