L'ascesa lungo il pendio era stata faticosa. Giunti sulla balza i due arrampicatori, Virgilio e Dante, incontrano «mentre sedeva e abbracciava le ginocchia, tenendo ‘l viso giù tra esse basso» (Purgatorio IV, 107-108) Belacqua, un liutaio amico del poeta, un uomo noto per gli «atti suoi pigri e le corte parole» (IV, 121-122). Di lui i fiorentini dicevano che «veniva la mattina a bottega, et ponevasi a sedere, et mai si levava se non quando voleva ire a desinate et a dormire».
Questa sorta di emblema del vizio capitale della pigrizia ci invita a continuare la riflessione attraverso il messaggio neotestamentario con le voci di Gesù e di san Paolo. Facile è evocare la parabola del Vangelo di Matteo con quel servo sciocco e svogliato che, dopo aver ricevuto dal suo signore in custodia un talento, anziché impegnarsi nel giro degli investimenti finanziari, si accontenta di «fare una buca nel terreno e di nasconderlo», in attesa del ritorno del padrone. Il quale, rientrando, lo rimprovererà così: «Servo malvagio e indolente, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio capitale con l’interesse». In tal modo, infatti, s’erano comportati gli altri servi più solerti e produttivi (Matteo 25,14-29).
Gesù, tra l’altro, aveva anche stigmatizzato l’atteggiamento ipocrita di coloro che dicono ma non fanno, dipingendo un quadretto di vita familiare con due figli, l’uno tutto parole, moine e apparenza che si dichiara pronto a correre nel campo a lavorare ma poi se ne sta a poltrire in casa, e l’altro, dal carattere ruvido e brusco, che alza le spalle rifiutando l’impegno, ma poi s’avvia a faticare nella campagna (Matteo 21,28-31).
La tirata più fremente contro l’ozio ce la offre, però, Paolo. A Tessalonica, sotto la scusa che ormai l’avvento di Cristo aveva segnato la fine della storia e che si doveva ritenere imminente la nuova era del regno di Dio, alcuni avevano rinunciato ai loro impegni familiari e sociali, abbandonandosi a un’esistenza esagitata ma inconcludente. Effettivamente è questo un altro volto dell’ignavia: agitarsi a vuoto, dando l’impressione di agire, mentre in realtà si tratta solo di un’inerzia nascosta.
L’apostolo, allora, reagisce con foga proponendo innanzitutto la sua testimonianza e poi ricorrendo a un proverbio lapidario: «Noi non abbiamo mai vissuto oziosamente tra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica notte e giorno per non essere di peso a nessuno tra voi. Eppure avevamo il diritto di farlo, ma abbiamo voluto darvi un esempio da imitare. Quando eravamo con voi, vi avevamo assegnato questa regola: Chi non vuol lavorare, neppure mangi!» (2Tessalonicesi 3,7-10).
È curioso notare che questa frase finale, da considerare già come proverbiale al tempo di Paolo, è entrata anche nella Costituzione sovietica del 1918 e nell’inno popolare comunista Bandiera rossa: «E noi faremo come la Russia: / chi non lavora non mangerà». Politicamente agli antipodi sarà, invece, un’altra canzone che rielaborerà lo stesso motto: «Chi non lavora non fa l’amore», canterà Adriano Celentano negli anni Settanta.
L’apostolo, poi, metterà sull’avviso il suo discepolo e collaboratore Tito nei confronti dei Cretesi definendoli con le parole del loro poeta nazionale Epimenide di Cnosso (VI sec. a.C.) come «sempre bugiardi, male bestie e ventri pigri» (Tito 1,12). Similmente non sopporterà donne che, «trovandosi senza far niente, imparano a girare qua e là per le case, non soltanto comportandosi da oziose ma divenendo anche pettegole e curiose e chiacchierando in modo sconveniente» (1Timoteo 5,13).