Fede e coronavirus. La Quaresima di quest’anno, davvero inedita, ci coglie in cammino verso il buio del Getsemani, la brutalità del Calvario, ma anche verso la luce che promana dalla Resurrezione dell’alba di Pasqua. “Nell'angoscia ho gridato al Signore; mi ha risposto, il Signore” (Salmo 118). Abbiamo voluto aprire un Diario della speranza e raccogliere le riflessioni di diversi personaggi, dal cardinale al prete di strada, dal monaco al vescovo, che ci accompagnano verso la Pasqua. A ognuno abbiamo posto proposto questa traccia di riflessione: «Cosa suggerisce, basandosi sull’Antico e Nuovo Testamento, sulla scorta del Magistero e della sua esperienza pastorale, ai familiari che hanno perso un loro caro, agli ammalati che stanno combattendo contro il virus, alle persone che hanno una paura profonda e paralizzante per sé, per i propri cari, per l’Italia?».
L'undicesimo contributo è di monsignor Davide Milani*
OCCORRE AGGRAPPARSI A ROCCE SICURE
“Andrà tutto bene”. Suona come un augurio sgraziato, una previsione fallita, una gaffes involontaria, un’offesa indesiderata. Non è andato tutto bene, non sta andando tutto bene, non andrà tutto bene: lo testimoniano i morti, chi li piange, chi si prodiga a curare negli ospedali, gli indicatori economici, i nuovi poveri, chi – nel bene o meno bene – a tutti i livelli ci governa. “Andrà tutto bene” è l’espressione ingenua, non riflessa, che porta con sé la convinzione che ce la si può fare da soli, che basta metterci il cuore, la volontà, il coraggio. Addirittura agli orecchi di qualcuno risuona come grido sprezzante, sfida temeraria al destino. Niente contro i disegni dei bambini appesi ai balconi e alle finestre, o ai collage fatti preparare ai più o meno consapevoli anziani delle case di riposo. Niente, sia chiaro, contro i doverosi e incoraggianti auguri che non è male scambiarsi. Tutti sentiamo il bisogno di aggrapparci a qualcosa che ci pare franco, sembra darci sicurezza immediata, offrici rapida consolazione. Ma chi lo spiega ai bambini fieri del proprio lavoretto arcobaleno che va comunque tutto bene anche se è morto il nonno? O che andrà tutto bene ma intanto occorre privarsi degli amici, delle gitarelle, di tante esperienze e di regali, giochi e vestiti perchè il reddito dei genitori si è volatilizzato?
Occorre aggrapparsi a rocce sicure, cercare le speranze che non franano davanti allo svelarsi della vita così com’è, alla prova del reale. “Andrà tutto bene” proietta sulla comprensione del mondo che ci circonda la convinzione che la vita risponda ad una teoria, ad una nostra programmazione. E’ il tentativo maldestro di stabilire da noi stessi la realtà, come se bastasse la nostra volontà a determinarla. Invece la vita accade, sotto i nostri occhi, frutto di quel complicato intreccio della mia libertà con quella degli altri, dei miei contemporanei e di coloro che ci hanno preceduto nella storia, delle forze magnifiche della natura con le sue imperfezioni. Mai come oggi stiamo misurando il mondo con le nostre ginocchia: come bambini strisciamo a terra ad ogni caduta, ferendoci a sangue. Purtroppo pare che solo così noi umani – maledetto sia il peccato e il tentatore che ci induce - possiamo sperimentare la bellezza dell’imparare ad andare in bici in autonomia, senza rotelle; godere del poter saltare, correre dietro ad un pallone. E intanto impariamo la durezza del pavimento di casa, la ruvidità dell’asfalto della strada, l’irregolarità del selciato del cortile. Ma anche la malignità di chi ci ha teso uno sgambetto per farci cadere, o la distrazione involontaria di chi ci ha tagliato la strada procurandoci un ruzzolone. Sui nostri balconi, sotto i nostri arcobaleni (che bel segno biblico!) dovremmo invece scrivere “Nell’angoscia ho gridato al Signore, mi ha risposto, il Signore, e mi ha tratto in salvo”. Sarà meno poetico, meno corretto politicamente, apparentemente meno ottimista. Ma molto, molto più autentico, rispettoso della vita così com’è, del modo in cui il reale si dà.
Perché dice della nostra paura, non la soffoca in gola, non isola ulteriormente chi ne è paralizzato, crea le condizioni migliori affinché il buio della mia sofferenza venga visitato dalla piccola fiammella dell’altro che – come me – è terrorizzato ma ha una piccola luce da offrirmi. La paura ci aiuta a prendere coscienza insieme della nostra debolezza e forza. Ci scopriamo creature capaci di essere grandi ma al tempo stesso fragili, pronti a volare, nuotare, lanciarci nel vuoto ma sempre bisognosi di una roccia che sia sostegno, pilastro, rifugio, trampolino verso il cielo.Nella nostra paura la nostra roccia è l’esperienza fatta con il Signore che mai ha abbandonato il suo popolo (lo leggiamo nella Bibbia) e che mai ci ha abbandonato (lo possiamo leggere nella nostra esistenza).
DIO NON È ASSENTE
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Certo, servono occhi allenati a vedere - nella vita che capita - la presenza paterna di Dio che non è assente nel gioco di forze che determina il reale, così come accade. Non ci manda i castighi, le pandemie, non è Dio nostro Padre che ci spinge a terra ferendoci le ginocchia. Lui certamente determina la realtà, ma a suo modo, in un solo modo: la vuole salvare, salvando noi. Lo canta il Salmista interrogando la sua esperienza e quella del popolo di cui è portavoce “Mi ha tratto in salvo”, ce lo testimoniano tante sorelle e fratelli nella fede, lo abbiamo sperimentato in proprio tante volte. Ogni gesto e atto di amore che ci è regalato, ogni consolazione che riusciamo ad offrire, ogni bellezza autentica che scopriamo nelle nostre giornate sono le risposte di Dio che ci raggiungono nella nostra paura. La speranza della Pasqua che tra poco celebreremo è quella roccia che ci difende e incoraggia nella paura e ci fa proclamare, pur con il groppo in gola, “mi ha tratto in salvo”.
Feriti ma pieni di vita, malati ma salvi, impauriti ma abitati dalla speranza: la luce della Pasqua di Gesù Cristo ci illumina e ci dona di scoprirci nella nostra verità.