«Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Ebrei 11,8). Il patriarca biblico e la sua vicenda sono una sorta di parabola della virtù della speranza, che stiamo trattando. Infatti essa è rischio ma anche fiducia, è attesa di una meta verso la quale si cammina, talora inciampando lungo i sentieri sassosi della storia, protesi all’incontro con Dio. Significative sono le ultime parole dell’intera Bibbia: «Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni! E chi ascolta ripeta: Vieni!... Sì, verrò presto! Vieni, Signore Gesù» (Apocalisse 22,17.20).
Proprio perché non procediamo senza un approdo o verso un abisso di nulla, san Pietro nella sua prima Lettera ammonisce così i cristiani: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (3,15).
È triste scoprire tanti fedeli pessimisti, senza un sussulto di ricerca, lamentosi e scoraggiati, pronti solo a deprecare la nequizia dei tempi in cui viviamo. Come potremo infondere la forza di continuare a vivere a chi ripete, come il celebre drammaturgo tedesco ateo Bertolt Brecht: «Non esiste ritorno. Altro mattino non verrà… Morite come le bestie e non c’è niente dopo»?
Dante era, invece, lapidario nella sua definizione della «spene», cioè la speranza: «Spene è uno attender certo de la gloria futura» (Paradiso XXV, 67-68). Era l’eco del libro biblico della Sapienza: «Le anime dei giusti sono nella mano di Dio… Anche se agli occhi umani sembrano dei condannati, la loro speranza è ricolma di immortalità» (3,1.4).
La Pasqua di Cristo è il suggello di questa attesa: infatti il Figlio di Dio, entrando nella realtà dolente e caduca della nostra umanità con la sua morte, l’ha intrisa e quindi trasfigurata con la sua stessa divinità. «Se siamo morti in Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più» (Romani 6, 8-9).
Anzi, l’Apostolo nella stessa Lettera ai cristiani di Roma (8,19-25) era convinto che pure il creato «attende con impazienza» che sorga l’aurora di una nuova creazione: «(...) anch’esso nutre la speranza di essere liberato dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio». Natura e umanità sono, dunque, strette da un unico nodo d’oro, quello della speranza. Invitiamo, perciò, i nostri lettori a seguire queste parole di Paolo nello stesso paragrafo della Lettera ai Romani: «Nella speranza siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (8,24-25).
È ancora l’Apocalisse, da cui siamo partiti, a innalzare nelle sue pagine finali la tela grandiosa di questo futuro sperato che Dio sta preparando e al cui allestimento siamo invitati anche noi col nostro impegno nella storia quotidiana. È ciò che Cristo chiamava «il Regno di Dio», mentre l’Apocalisse lo raffigurava come la Gerusalemme nuova e perfetta. Nelle sue strade e nelle sue case passerà Dio stesso a «tergere ogni lacrima dagli occhi: non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né l’affanno, perché le cose di prima sono passate» (21,4).