In questa puntata invitiamo i lettori a impegnarsi in una riflessione complessa che scaturisce da una parola greca fondamentale nel messaggio dell’apostolo Paolo. Partiamo con la citazione di un versetto della sua Lettera ai Galati ove abbiamo messo in corsivo il tema che è legato a quella parola. «Riconosciamo che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per la fede in Gesù Cristo. Abbiamo creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge. Dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno» (2,16).
Per ben tre volte in questo passo san Paolo presenta il cuore del messaggio teologico che svilupperà in quello scritto e nel successivo capolavoro della Lettera ai Romani. Questa tesi è di solito sintetizzata nella formula «giustificazione per la fede» e il suo contenuto è stato oggetto di dibattito e di divisione fin dal ’500 tra la Chiesa cattolica e la Riforma protestante, anche se nel 1999 si è approdati a una dichiarazione congiunta tra cattolici e luterani capace di mettere in luce la sostanza comune della fede attorno a questo tema fondamentale.
Il vocabolo greco in questione è dikaiosýnê, «giustificazione», che risuona 92 volte nel Nuovo Testamento, a cui si associa il verbo dikaioún, «giustificare». Essi sono termini di matrice giudiziaria e indicano il riconoscimento della giustizia e della correttezza di una persona. Ma il concetto religioso va ben oltre l’indicazione forense. Cercheremo ora di delinearlo in modo molto semplificato ed essenziale. Il punto di partenza è la «giustizia» di Dio, ossia il suo volere salvifico nei confronti della sua creatura. È quella che Paolo chiama la «grazia», che in greco è espressa col vocabolo charis (un termine che a suo tempo presenteremo), lo stesso che è alla base della nostra parola «carità»: si tratta, quindi, dell’amore del Signore che si indirizza all’uomo allontanatosi da lui col peccato. È Dio a muoversi per primo verso la sua creatura.
Infatti Paolo ai Romani scrive: «Isaia arriva fino ad affermare: Sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non si rivolgevano a me» (10,20). L’uomo, certo, con la sua libertà può accogliere o rifiutare la grazia, la giustizia salvatrice divina. L’accoglienza è appunto la fede, pístis in greco (parola che pure illustreremo in futuro), che è l’adesione libera, volontaria e gioiosa al dono divino, è l’aprire le braccia alla sua grazia salvante, al suo amore liberatore. Lo stato finale del credente autentico, cioè di colui che ha fede, è appunto la dikaiosýnê, «giustificazione», ossia l’essere reso giusto da Dio che lo strappa dal male e dal peccato, dalla sárx, «carne». Quest’ultima è per l’apostolo il principio maligno interiore che conduce la nostra libertà al peccato (in greco hamartía). Chi ci segue con impegno sa che abbiamo già spiegato nelle scorse settimane di marzo questi due vocaboli sárx e hamartía.
L’uomo, però, può tentare di «giustificarsi» da solo, cioè di salvarsi attraverso le opere della legge, in un’osservanza di norme che impongono di praticare atti giusti meritori. Ma è come se egli volesse uscire dalle sabbie mobili da solo, senza avere una mano sicura esterna, tesa da chi sta su una roccia stabile. È quello che dichiara Paolo quando denuncia l’illusione di chi vuole essere salvato «con una sua giustificazione (dikaiosýnê) derivante dalla legge e non con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustificazione (dikaiosýnê) che deriva da Dio, basata sulla fede» (Filippesi 3,9).
Le opere giuste sono, allora, eliminate? No, esse non sono la causa ultima della nostra salvezza ma sono «il frutto» necessario che fluisce dalla «giustificazione» donata da Dio in Cristo. Essa ci conduce, infatti, a compiere atti d’«amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5, 22). Queste opere virtuose sono il segno dell’autenticità della nostra «giustificazione» e della nostra fede vera.