Nel libro della Genesi troviamo una rappresentazione simbolica della creazione voluta da Dio: un paesaggio esistenziale ideale, un cosmo pacificato
Nella scorsa puntata abbiamo dipinto con le parole della Genesi (1,11-12) il manto meraviglioso che la terra indossa, e che le è stato imposto dal Creatore. Stiamo parlando della vegetazione che spesso ignoriamo o peggio calpestiamo. Noi vorremmo, invece, spingere i nostri lettori a sostare nella contemplazione di questo mirabile orizzonte che purtroppo la cementicazione continua a restringere. Lo facciamo con una delle pagine fondamentali della Bibbia: è il capitolo 2 della Genesi che è una sorta di seconda narrazione dell’atto creativo di Dio.
Un mondo raffigurato come un giardino, stando al racconto biblico: «Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi» (2,9-10). Cerchiamo di spiegare ora alcune componenti di questa descrizione, soggetto di infinite raffigurazioni artistiche, di solito intitolate come Il giardino di Eden. Iniziamo con la curiosa menzione geografica di Eden, un vocabolo che di per sé signfiica “delizia, piacere”: saremmo di fronte a un “giardino di delizie”, una sorta di isola felice, un’oasi simile a quella lussureggiante di Gerico, immersa nel deserto arido e quasi lunare della fossa del Giordano. Curiosamente, nelle lingue mesopotamiche – nell’accadico e-dinu e nel sumerico e-din – la radice di Eden rimanda invece all’idea di “steppa” o “deserto”.
Ora, in questa regione, che poteva forse alludere a qualche località specifica ma che è resa simbolica dall’autore sacro, è incastonato un “giardino”, in ebraico gan. Questo è il vocabolo originario, anche se noi siamo abituati a parlare di “paradiso terrestre”. È stata l’antica versione greca della Bibbia, detta “dei Settanta” dal leggendario numero dei traduttori, seguita dalla tradizione cristiana, a introdurre la parola “paradiso” anziché “giardino”. Invitiamo ora i nostri lettori a un esercizio linguistico non troppo difficile.
Il vocabolo in questione, “paradiso”, è raro nella Bibbia ed è di origine persiana: era pairidaeza nell’antica lingua iranica, è divenuto pardes in ebraico, parádeisos in greco, e infine il nostro “paradiso”. Il vocabolo rimandava a un giardino recintato, fertile e fiorito: il signicato del termine persiano è appunto “proprietà regale recintata”; ma già nell’antica lingua mesopotamica sopra citata, l’accadico, pardesu indicava un “frutteto recintato”. Il testo originale della Genesi – a differenza delle antiche traduzioni greca e latina – non usa, come si è detto, il vocabolo “paradiso” che, tra l’altro, nell’Antico Testamento ricorre solo tre volte: una nel Cantico dei cantici (4,13) e due altre volte per definire un parco reale (Nehemia 2, 8 e Qohelet 2, 5). L’idea del “paradiso terrestre” è stata perciò indotta in questo ritratto del giardino dell’Eden ed è diventata così popolare da dominare nella storia successiva.
Non sono mancati, allora, coloro che si sono incamminati verso l’Arabia o la Mesopotamia alla ricerca del vero giardino di Eden. L’autore poteva avere in mente forse qualche scena esotica; tuttavia quel giardino era ai suoi occhi il simbolo di un cosmo pacificato e sereno, un paesaggio esistenziale ideale, in cui l’uomo passeggiava sereno e beato. Siamo, quindi, in presenza di una rappresentazione simbolica del creato così come è concepito da Dio, una mappa ideale al cui interno l’uomo è il custode e il coltivatore. In quel giardino “paradisiaco” si levano due alberi dal nome strano, non registrato in botanica, che spiegheremo nella prossima tappa del nostro viaggio: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.