Da questa radice deriva il nostro amen. Indica l’essere fondati su una roccia che impedisce di essere spazzati via dalla tempesta. Il riferimento è a Dio, cui appoggiarsi con fiducia
Forse non ne sono consapevoli, ma tutti i nostri lettori, quando concludono una preghiera ufficiale cristiana (come il Padre Nostro o l’Ave Maria) o rispondono a quella del sacerdote durante la celebrazione liturgica, usano una parola ebraica, sia pure un po’ trasformata. È l’amen finale che è basato su un verbo che noi abbiamo trascritto come ’aman: esso risuona almeno 330 volte nell’Antico Testamento e letteralmente signica «essere stabili, sicuri», in un certo senso, fondati su una roccia che impedisce alla casa di essere spazzata via dalla tempesta.
È un po’ la parabola che Gesù narra a suggello del Discorso della montagna, quando contrappone i due costruttori, quello che sceglie appunto la roccia solida per erigere la sua dimora e l’improvvido che la edifica sulla sabbia del litorale (Matteo 7,24-27). Ora, quel verbo è alla radice del vocabolo ebraico che vogliamo spiegare nei suoi vari significati: ’èmet. Sì, perché le traduzioni nelle lingue moderne devono ricorrere a più versioni: verità, fedeltà, fiducia, fede, sicurezza, stabilità e simili.
Uno studioso francese, Georges Mounin, aveva intitolato un suo scritto sull’atto del tradurre da una lingua all’altra con questo motto: La bella infedele. Infatti, le molteplici sfumature proprie di una lingua (soprattutto quando appartiene a una cultura differente, com’è quella semitica) non possono essere compresse in un unico vocabolo. È ciò che avevamo visto nella scorsa puntata della nostra rubrica con la parola hèsed, bontà, misericordia, fedeltà. Il rischio è, perciò, quello di amputare qualche signicato, divenendo in qualche modo infedeli rispetto all’originale.
Ebbene, ’èmet è la sorella minore di hèsed perché anch’essa è uno dei termini con cui si cerca di descrivere la complessità del legame che unisce Dio e il suo popolo, espresso con quella parola che abbiamo già presentato, berît, «alleanza, impegno, patto». Per questo, il nostro vocabolo può essere applicato sia a Dio, sia a Israele e all’umanità. Così, il salmista invoca il Signore con questo appello: «Signore, il tuo amore (hèsed) è nel cielo, la tua fedeltà (’èmet) fino alle nubi… Guidami nella tua fedeltà (’èmet) e istruiscimi perché sei tu il Dio della mia salvezza» (Salmi 36,6; 25,5).
In parallelo il profeta Abacuc, in una frase particolarmente cara a san Paolo che la citerà e la commenterà nella Lettera ai Romani (1,17), afferma che «il giusto vivrà per la sua fede/ fedeltà (’èmet)» (2,4). Anzi, è ancora il salmista a intrecciare insieme le due virtù, hèsed e ’èmet, immaginandole mentre camminano a braccetto per le strade della storia: «Amore (hèsed) e fedeltà (’èmet) s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Salmo 85,11). Come è evidente, appaiono altre due virtù tipiche dell’alleanza con Dio, giustizia e pace, che avremo occasione di presentare in futuro.
A differenza del concetto greco di «verità» che si riferiva allo svelamento di ciò che è nascosto nelle varie realtà (alètheia), per la Bibbia la verità è credere in quello che Dio ti rivela, è contare e appoggiarsi con fiducia su di lui. L’immagine più suggestiva per definire l’atteggiamento sotteso al nostro amen e alla parola ’èmet è ancora una volta offerta dal salmista in un canto breve ma dolcissimo: «Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia» (Salmo 131,2).