C'è una parola che è entrata da tempo nel linguaggio teologico quando si definisce la meta ultima e il senso globale finale della storia e del creato: «escatologia», un vocabolo che ha alla base l’aggettivo greco éschatos presente 52 volte nel Nuovo Testamento e che significa appunto «ultimo, finale». L’Avvento, che in questa domenica si conclude, è proteso non solo verso la prima venuta nell’umanità del Figlio di Dio, ma è anche l’attesa del suo glorioso ingresso a suggello della vicenda umana per creare «un cielo nuovo e una terra nuova», come annuncia l’Apocalisse (22,1).
L’aggettivo nei Vangeli è lapidariamente definito nel suo senso profondo in una celebre frase di Gesù simile a un proverbio: «Gli ultimi (éschatoi) saranno i primi e i primi ultimi» (Marco 10,31). È il capovolgimento delle sorti e della scala dei valori umani, come si afferma nel canto di Maria, il Magnificat, attraverso il ribaltamento dei destini dei superbi, dei potenti, dei ricchi rispetto agli umili e agli affamati (Luca 1,51-53). O come accadrà nel giudizio finale raffigurato nella scena grandiosa descritta dal c. 25 di Matteo.
Ma questa legge della rivoluzione delle sorti secondo umiltà e giustizia vale agli occhi di Gesù anche per la vita attuale, sia ecclesiale sia sociale. Ai discepoli che sgomitano per fare carriera egli ricorda che «se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Marco 9,35). La stessa scelta è proposta anche nel comportamento pubblico attraverso la parabola dell’assegnazione di posti a tavola.
Ecco questo racconto evangelico: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Luca 14,8-11).
San Paolo riconosce di essere l’ultimo nel consesso degli apostoli, anche perché il Cristo risorto «ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono neppure degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1Corinzi 15,9). Ma, oltre a questa confessione personale, Paolo allunga il suo sguardo assegnando alla parola «ultimo» il senso «escatologico» sopra evocato. Lo fa non solo affermando che il Cristo risorto è «l’ultimo Adamo», l’uomo perfetto, «spirito datore di vita», ma anche esaltando il suo atto di sovranità sul male e sulla morte: «È necessario che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» (1Corinzi 15,25-26.45)
L’apostolo ama anche tratteggiare simbolicamente quella meta terminale introducendo anche il suono dell’«ultima tromba» che convoca l’umanità al giudizio (1Tessalonicesi 4,16). Si aprirà, così, «l’ultimo giorno», un’espressione usata spesso anche da Giovanni nel suo Vangelo (6,39.40.44.54; 11,24; 12,48), per designare ciò che nel linguaggio tradizionale sono stati chiamati i «Novissimi», ove l’idea di «novità» comprende quella di pienezza e di svolta radicale e, quindi, definitiva.
Su questa scena solenne si erge il Cristo che nell’Apocalisse si autopresenta a più riprese così: «Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi… Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine» (1,17-18; 22,13). È come se contemplassimo il Cristo Pantokrátor, cioè Onnipotente, nell’abside della cattedrale di Monreale, glorioso ma coi segni della passione, vittorioso sul male e sulla morte.