È facile che molti lettori si scandalizzino per la pena di morte codificata nel «codice dell’alleanza» tra Dio e Israele al Sinai (Esodo 21,12-17) o per le lapidazioni e roghi (Levitico 20,14; 21,9), purtroppo praticati in passato anche dalla cristianità. Mi ha sorpreso, invece, tempo fa una lettera che mi chiedeva se anche Gesù non fosse a favore della pena di morte, almeno per i pedofili. La base era in una nota frase evangelica, presente in Marco (9,42), Matteo (18,6) e Luca (17,2): «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato in mare».
La risposta è da cercare sempre all’interno di una corretta interpretazione del testo sacro, un tema che stiamo affrontando da alcune settimane nella nostra rubrica. Ora è ben noto che Gesù – come tutta la Bibbia – usa un linguaggio simbolico legato alla cultura semitica del suo tempo: esso ha formule espressive, immagini, simboli differenti dai nostri e quindi da comprendere e interpretare. Nel passo in questione egli sta parlando non tanto dei bambini (in greco paidíon) – a cui pure si fa riferimento nel contesto, assunti però come emblemi della fiducia pura e serena – ma dei «piccoli» (in greco mikrós), una categoria non anagrafica ma esistenziale. Infatti si dice esplicitamente: «i piccoli che credono». Di scena sono quasi certamente coloro che sono deboli nella fede, piccoli nel credere e che devono ancora crescere (non si tratta, dunque, della pur esecrabile e infame vergogna della pedofilia).
È facile che, con superficialità o cattiveria, un fratello che si sente più sicuro nella sua fede possa far cadere questi «piccoli»: si usa infatti la parola «scandalo» che in greco letteralmente indica la pietra o la trappola che fa inciampare la selvaggina nella caccia. Anche san Paolo, scrivendo la Prima Lettera ai Corinzi (8,7-13) e quella ai Romani (14,1-15,6), affronta questo problema suggerendo carità e pazienza: «Accogliete fra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (Romani 14,1).
Cristo, contro coloro che invece mettono consapevolmente in crisi il fratello, «piccolo» nella fede, pronuncia una sorta di maledizione, esprimendola con un’immagine colorita e veemente desunta dal mondo in cui egli viveva e dalle sue consuetudini.
Si tratta del cosiddetto katapontismós, ossia in greco dell’esecuzione dei colpevoli per annegamento. Essa era praticata dai Romani: l’imperatore Augusto aveva fatto annegare il precettore e i servi di suo figlio Gaio, stando almeno allo storico romano Svetonio, mentre un altro storico, l’ebreo Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), menzionava il caso dei Galilei ribelli che avevano annegato nel Lago di Tiberiade alcuni sostenitori di Erode. Gesù, che ha insegnato l’amore e il perdono dei nemici, non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio.
Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a quell’immagine per indicare la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. È un modo simbolico vigoroso, tipico del linguaggio orientale che ama le tinte forti e le passioni accese, per ricordare il severo giudizio divino nei confronti di un atto considerato come grave. L’idea di legare al collo la pesante macina, con un foro destinato a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare, diventa così un segno della condanna grave che incombe sullo «scandalizzatore».