C’è una frase nel Vangelo di Matteo che i lettori hanno in mente e che sanno interpretare, nonostante la stranezza di un inciso incastonato in essa: «Giuseppe prese con sé la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù» (Matteo 1,24-25). Ora, tutti sanno che il verbo «conoscere», sia nell’ebraico biblico (jada‘), sia nel greco ginôskô (si pronuncia ghinósko), presente ben 222 volte nel Nuovo Testamento, può anche esprimere una relazione d’amore, nella sua complessità e quindi pure nell’atto sessuale.
Alla base di questo fenomeno c’è una concezione della conoscenza come un’esperienza globale, che non si ferma solo ai piani alti del cervello, nella sua funzione razionale, ma si estende anche altre dimensioni della persona, alla volontà, alla passione, alla sensorialità, alla corporeità. Noi, infatti, abbiamo diversi canali di conoscenza non solo intellettivi, ma anche affettivi ed effettivi, amorosi, artistici e simbolici. È in questa prospettiva che il «conoscere» biblico si allarga in un ventaglio molto ampio di approcci.
Quando, allora, noi leggiamo ad esempio nel Vangelo di Giovanni che Gesù definisce la vita eterna come «conoscere te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (17,3), non intende proporci una mera conoscenza astratta, bensì un’accoglienza, anzi, una comunione nell’intimità della fede e della carità. Non per nulla lo stesso Giovanni nella sua Prima Lettera diventa al riguardo esplicito: «Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (4,7-8).
Questo, però, non esclude che esista una conoscenza capace di implicare anche un comprendere, tant’è vero che la missione del Figlio, Gesù Cristo, è così esplicitata sempre da Giovanni nel prologo del suo Vangelo: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (1,15). Suggestiva in questa linea “teologica” (che non esclude, però, l’adesione d’amore) una dichiarazione di Gesù stesso: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Matteo 11,27).
Rischiosi e costanti nella storia della cristianità sono stati due estremi. Da un lato, ridurre il «conoscere» della fede solo a «gnosi» (dal greco gnôsis, «conoscenza», un vocabolo che pure è noto al Nuovo Testamento per 29 volte), cioè a pura e altezzosa comprensione intellettuale, come accadeva ad alcuni cristiani della comunità di Corinto (1Corinzi 1-2), pronti a ridurre il cristianesimo a un sistema di sapienza modellato sulle varie speculazioni filosofiche greche. Paolo reagisce con veemenza proponendo «il Cristo crocifisso scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani» (1,23).
D’altro lato, c’è il rischio di riportare la fede solo a un’adesione pratica morale, a una serie di precetti etici e tendenzialmente a un comportamento sociale. È la deriva del moralismo che lega il credere solo al fare e semplifica la figura di Gesù come quella di un maestro di etica o di operatore sociale. In sintesi, potremmo dire che il conoscere biblico è comprendere e agire, confessare e professare, rivelazione e obbedienza. Come suggerisce Paolo ai cristiani di Efeso, è necessario pregare «affinché il Dio del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui» (1,17).