Nella scuola media superiore (almeno in passato) si faceva riferimento anche a uno scrittore emiliano, Matteo Maria Boiardo, la cui opera più famosa era stato L’Orlando innamorato, pubblicato nel 1494. In quel poema entravano in scena due personaggi bellicosi e tracotanti, i cui nomi sono diventati successivamente emblemi comuni di vanteria e di spacconata, Gradasso e Rodomonte, tant’è vero che già il più celebre poeta Ludovico Ariosto nel suo Orlando furioso li ripresenterà in scena. Il vizio della superbia, che stiamo considerando ormai da più puntate, rivela spesso il profilo della millanteria e dell’autolode spudorata.
Il ritratto più efficace di questa devianza morale è disegnato da Gesù in una delle sue parabole riferite da Luca (18,9-14). Sullo sfondo del tempio, nel contesto di una preghiera, si confrontano due figure. La prima è quella di un «pubblicano», come allora erano definiti gli esattori delle tasse a favore dell’Impero romano. Egli, umile e sincero, in fondo al tempio, «a distanza e non osando neppure levare gli occhi al cielo, si batte il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me, peccatore!». L’altro è, invece, un fariseo tronfio di sé, un vero gradasso spirituale che «in piedi prega così: O Dio ti ringrazio di non essere come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri».
L’evangelista introduce il racconto con una nota: la parabola è narrata da Gesù contro «coloro che presumono di essere giusti e disprezzano gli altri». È un atteggiamento che Cristo, pur misericordioso nei confronti dei peccatori, ha sempre condannato con asprezza, a partire dal Discorso della montagna ove aveva denunciato gli ipocriti orgogliosi che dell’ostentazione della loro pietà facevano vessillo «così da essere lodati e visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa» (si legga integralmente la pagina molto forte di Matteo 6,1-18).
Questa sorta di superbia religiosa insidia un po’ tutti, tant’è vero che san Paolo confesserà: «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia» (2Corinzi 12,7). Egli si era presentato modestamente ai cristiani di Corinto «perché imparassero a non gonfiarsi d’orgoglio» (1Corinzi 4,6).
Classica è l’immagine dell’altezzosità del superbo che si «gonfia» o «si pavoneggia» con la sua voglia di comando e la sua logorrea saputa. Tutti ricordiamo la favola dello scrittore francese del ’600 Jean de la Fontaine, che ha per protagonista la stupida boria di una rana: essa beve così tanta acqua da gonfiarsi a dismisura per essere uguale a un bue, esplodendo con un esito catastrofico. Il nostro «non star più nella pelle» rimanda proprio all’ansia di primeggiare e ottenere successo. Concludiamo, allora, lasciando la voce a san Pietro che nella sua Prima Lettera esortava giovani e anziani così: «Rivestitevi di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi e dà grazia agli umili» (5,5).