Come avviene anche in latino, questo verbo, prima ancora di designare il sapere intellettuale, significa “avere sapore”, espressione di una conoscenza globale e vitale
Un anno fa creò scalpore e polemica la trasformazione della basilica di Santa Sofia a Istanbul in una moschea. Il nome greco originario rimandava alla Sapienza, una qualità divina che è partecipata anche da Maria, la madre di Gesù, invocata come sedes sapientiae nelle Litanie Lauretane. Noi risaliamo, invece, alla matrice biblica di questa virtù che è assegnata anche all’umanità sotto il termine ebraico hokmah (la prima h è aspirata). Essa, nella sua base linguistica destinata ad abbracciare anche «il sapiente» e «il sapere», risuona 318 volte nell’Antico Testamento.
Lo facciamo agli esordi del mese solitamente legato alla riapertura delle scuole, ricordando che, proprio come nel caso del vocabolo ebraico, in latino il verbo sàpere, prima ancora di designare il sapere intellettuale, significa «avere sapore», espressione di una conoscenza globale e vitale. Dobbiamo innanzitutto segnalare che nella classificazione tradizionale dei libri dell’Antico Testamento, accanto alla Legge e ai Libri storici e ai Profeti, si configura un settenario di «libri sapienziali» (Giobbe, Salmi, Proverbi, Qohelet, Cantico, Sapienza, Siracide). Ora, la «sapienza» è una forma di riflessione di taglio filosofico-sperimentale, dotata di generi, espressioni e stili letterari propri. Essa era fiorita in tutto l’antico Vicino Oriente e aveva prodotto molti testi di grande suggestione. In Israele era stata introdotta con Salomone, considerato come l’archetipo e l’emblema della sapienza israelitica (si legga 1Re 5,9-14), tanto è vero che a lui furono attribuite anche opere sapienziali posteriori, come il Cantico dei cantici o il Libro della Sapienza.
La riflessione sapienziale ha al centro non solo l’ebreo ma l’uomo in quanto tale, ha-’adam in ebraico, còlto nelle sue tre relazioni fondamentali: verso Dio, verso il prossimo, verso il Creato (significativi, al riguardo, sono i capitoli 2-3 della Genesi). Si ha una sapienza alta, che si interroga sul valore ultimo dell’esistenza: «Quale vantaggio ricava l’uomo dalla fatica con cui s’affatica sotto il sole?» (Qohelet 1,3). In essa emergono anche le contraddizioni dell’esistenza, lo scandalo del male, il silenzio di Dio: si pensi alla figura di Giobbe e al suo contrasto con i suoi amici sapienti. Costoro incarnano un’altra sapienza più ottimistica, che ha radici anche popolari e che vede la storia retta da una legge, quella della retribuzione, ritmata sui binomi delitto-castigo e giustizia-premio, così da armonizzare la realtà in nome di Dio e della sua giustizia.
La sapienza è, però, anche una categoria «teo-logica»: essa, cioè, serve a spiegare Dio soprattutto nella sua veste di creatore. Significativo è l’inno che la Sapienza divina personificata intona nel capitolo 8 del libro dei Proverbi (vv. 22-31). Essa si presenta come derivante da Dio stesso e come un «architetto» teso alla sua opera che è la creazione del mondo. Per questo tutto il Creato reca in sé un’impronta della Sapienza e rivela una sua armonia; ma l’uomo saggio è l’espressione più alta di questa opera creatrice della Sapienza divina.
Certo, nella sua libertà egli può anche perdere questo dono ed ecco apparire sulla scena lo «stolto» che condensa in sé l’antitesi della saggezza. A tutti gli insipienti la Sapienza personificata rivolge, allora, questo appello: «Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Proverbi 9,6).