Quando noi sentiamo l’espressione «Figlio di Dio», spontaneamente ricorriamo alla figura di Cristo e questo è basato sullo stesso Nuovo Testamento, anche a livello statistico: Gesù è proclamato Figlio di Dio per 31 volte nei tre Vangeli sinottici, per 23 volte in Giovanni, per 42 volte nel corpo delle varie Lettere neotestamentarie, per 3 negli Atti degli apostoli e per un’ultima volta nell’Apocalisse. C’è, dunque, una specifica attribuzione cristologica a un titolo che ha, però, un’applicazione più generale nelle 377 volte in cui è presente nel Nuovo Testamento.
Già nell’Antico Testamento vigeva un uso più ampio: «figli di Dio» erano chiamati gli angeli oppure gli stessi Israeliti («Israele è il mio figlio primogenito!», Esodo 4,22), i giusti e i fedeli, il re davidico quando veniva intronizzato: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato», affermava l’oracolo divino (Salmo 2,7). Quest’ultima dichiarazione verrà applicata a Cristo nel suo battesimo al Giordano (Luca 3,22), ma ormai con un significato pieno.
È per opera sua che noi riceviamo lo statuto di «figli» adottivi, come sottolinea san Paolo, ricorrendo proprio al titolo giuridico dell’hyiothesía, cioè dell’adozione. In sintesi, nel Figlio diveniamo anche noi figli, sia pure a un livello diverso. È per questo che soprattutto san Giovanni usa due diversi vocaboli greci per indicare il Figlio per eccellenza, Cristo, che è l’hyiós unigenito, mentre i figli che siamo noi, siamo definiti tékna (99 volte con varie applicazioni nel Nuovo Testamento).
Questa nostra filiazione è reale anch’essa, ha un segno vivo in noi per cui, ad esempio, «gli operatori di pace» possono essere a ragione chiamati «figli di Dio» (Matteo 5,8). Infatti, «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abba’, Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio e, se figli, siamo anche eredi di Dio, eredi di Cristo» (Romani 8,14-17).
Con questa parola greca hyiós che ci unisce al Figlio per eccellenza, al Cristo che celebriamo in questo Natale come nostro fratello nell’umanità ma anche nella partecipazione adottiva alla sua divinità, si conclude un’esperienza un po’ ardua che ha coinvolto i nostri lettori più fedeli e pazienti. Essa è durata due anni, iniziando con la selezione delle parole ebraiche bibliche più importanti usate anche da Gesù. Abbiamo, poi, continuato coi vocaboli fondamentali greci del Nuovo Testamento, usati dagli apostoli, dagli evangelisti e dai discepoli durante la loro missione nell’Impero romano, a partire da Gerusalemme, adottando la lingua allora dominante.
Abbiamo, così, composto un mini-vocabolario ebraico-greco-italiano di oltre cento parole fondamentali che permettono di creare anche un quadro essenziale della teologia biblica. Alcuni sacerdoti ci hanno scritto riconoscendo di aver potuto riprendere in sintesi i loro studi teologici del passato, altri lettori ci hanno proposto di raccogliere ora in un volume questo itinerario nel cuore del messaggio biblico, cioè la Parola divina che si è espressa in parole umane. Per quanto mi riguarda, vorrei concludere con un piccolo enigma: affiderò il mio pensiero finale alla voce di un antico anonimo autore sacro. È un saluto ideale che lascio scoprire ai lettori se apriranno la loro Bibbia e cercheranno questa citazione: Secondo Libro dei Maccabei 15,38-39.