«Scosse da forte tuono, tutte le cose spesso sembrano tremare e pare che, divelte all’improvviso, le vastissime mura dell’ampio mondo siano andate in pezzi». In questi pochi versi il poeta latino Lucrezio (I sec. a.C.) nel suo capolavoro De rerum natura (VI, 121-123) descriveva un’esperienza che l’umanità, fin dalle sue origini, ha vissuto con terrore. Il tuono, che esplode durante una tempesta e fa vibrare la terra, è divenuto spontaneamente la voce di una divinità adirata e furente. Anche se la scienza ha smitizzato questa concezione, è indubbio che la veemenza di un temporale genera sempre un fremito di paura.
Siamo ormai in agosto, e il cielo può oscurarsi di nubi fosche e scatenarsi una bufera. È proprio questa la scena che un poeta dei Salmi biblici raffigura e trasforma in una parabola religiosa. Si tratta del Salmo 29, forse una delle più arcaiche composizioni del Salterio, che ha al centro il progressivo e violento dispiegarsi di una tempesta estiva sull’intera area della Terrasanta. L’inno è ritmato su un vocabolo ebraico ripetuto in crescendo sette volte, qôl, che contemporaneamente significa «tuono » e «voce»: si può facilmente capire il trapasso dal fenomeno atmosferico alla meditazione teologica.
Il termine, come il nostro «tuono», ha un valore onomatopeico, cioè riesce, con il suo suono cupo e martellato per sette volte secondo un’intensità sempre maggiore, a creare un senso di timore e di venerazione ansiosa. Scoppiano i primi tuoni in lontananza, «sulle acque immense» del Mediterraneo (v. 3); il temporale da occidente si sposta a nord e, con i fulmini, schianta i cedri del Libano (v. 5). Anzi, le due catene montuose settentrionali del Libano e dell’Hermon (o Sirion) sussultano quasi fossero bufali o vitelli impazziti (v. 6). I lampi accecanti si estendono ormai fino alle regioni meridionali, la steppa di Qadesh (v. 8).
Il poeta punta il suo obiettivo su una scenetta sorprendente: in quegli spazi desertici le cerve e le capre incinte, atterrite e in fuga frenetica, partoriscono prematuramente e persino abortiscono. All’eccitazione accelerata di questo quadro imponente subentra, all’improvviso, una calma quasi olimpica. L’orante è nel tempio di Sion e, nonostante fuori imperversino il turbinio dei venti e il fracasso dei tuoni, qui si leva la voce del canto: «Tutti dicono: Gloria!» (v. 9). Si sviluppa così la lezione che il Salmista vuole estrarre da un’esperienza naturale così frenetica.
L’affresco finale, infatti, non è più legato all’orizzonte tumultuoso terreno, ma rappresenta l’ambito trascendente e superiore della divinità: «Il Signore è seduto sopra l’oceano, il Signore siede re per sempre. Il Signore darà potenza al suo popolo, il Signore benedirà il suo popolo con la pace» (vv. 10-11). Dio si rivela, certo, anche nelle misteriose e tremende vicende della natura e della storia, ma è sempre il re che le domina, per cui noi non siamo abbandonati al caos del nulla e del male. Anche nel gorgo ciclonico degli elementi cosmici e degli sconvolgimenti della storia, il fedele sa di avere un punto fermo e stabile nel Signore «che benedice il suo popolo nella pace». Dalla natura nei suoi complessi meccanismi fisici si estrae – come faceva Gesù con le sue parabole – una lezione che si sviluppa su un altro piano, quello spirituale e morale.