Celebre è la frase del filosofo tedesco Immanuel Kant nel finale della sua opera La critica della ragion pratica (1786): «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso il pensiero vi si sofferma: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me». Il cielo è visto come un simbolo del divino, del mistero, del trascendente, di ciò che è oltre il limite della creatura.
Già l’Antico Testamento era consapevole che il cielo non è che un segno perché Dio, che è infinito, va oltre e ingloba lo stesso orizzonte celeste. Salomone prega così, durante la consacrazione del tempio di Gerusalemme: «I cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che ti ho costruita!» (1Re 8,27). Si pone allora la domanda sul significato delle due rappresentazioni teologiche più importanti del cielo, quelle dell’Ascensione di Gesù risorto che celebriamo in questa domenica e dell’Assunzione di Maria.
Esse sono anticipate nell’Antico Testamento dall’esperienza di Elia rapito al cielo su un cocchio di fuoco (2Re 2,1-18) e questa ascesa diventa un’immagine del destino dei giusti che, dopo la morte, vengono condotti tra le braccia di Dio, come canterà il Salmo 16: «Tu non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (vv. 10-11).
Questo Salmo sarà da san Pietro applicato, nel discorso di Pentecoste, alla Risurrezione di Cristo (Atti 2,24-28). Ora, la Risurrezione di Gesù Cristo non di rado nel Vangelo di Giovanni e nelle Lettere di Paolo è raffigurata proprio come un «innalzamento» verso l’alto, un’«esaltazione» celeste: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me», annuncia Gesù alle soglie della sua passione (Giovanni 12,32). Il significato dell’Ascensione – che è descritta due volte da Luca, rispettivamente nel suo Vangelo (24,51) e negli Atti degli apostoli (1,9) – è allora chiaro. Sotto l’immagine spaziale dell’«innalzamento» dalla terra al cielo si vuole indicare la realtà profonda della Pasqua di Cristo.
Ebbene, Cristo, dopo esser divenuto uomo entrando nel tempo e nello spazio in cui l’umanità è circoscritta, ritorna con la sua Risurrezione nell’eternità e nell’infinito di Dio a cui egli appartiene come Figlio di Dio e che noi rappresentiamo nel cielo. Dietro a lui l’umanità redenta si mette in cammino e, per prima, ecco la madre di Gesù, Maria, che ci precede nel destino di gloria. L’Ascensione-Assunzione è, quindi, l’indicazione della meta ultima di Cristo ma anche di tutti i giusti. Ad essa si accede con tutto il nostro essere, che la Bibbia delinea nel «corpo» che ingloba in sé anche l’anima: è quindi la Risurrezione il vero nostro destino, allorché tutto l’essere sarà trasfigurato, così come è accaduto a Cristo.
Proprio perché è ora nel «cielo», cioè nell’infinito e nell’eterno, Cristo può superare i limiti dello spazio e del tempo ed essere con noi dappertutto e per sempre, come egli aveva annunziato ai suoi discepoli nella finale del Vangelo di Matteo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (28,20).
Il «cielo», perciò, è un segno di grande rilievo nella teologia, purché sia spogliato da interpretazioni “astronautiche” e troppo “letteralistiche” e riportato al suo valore genuino e profondo, religioso e “pasquale”.