«Chi ha ragione di solito non urla, non scaraventa oggetti, ma lascia che la ragione si imponga da sé… Ci scherzate, invece, coi risultati che ottiene uno il quale, sapendo di aver torto e non potendo ricorrere ad altri argomenti, scaraventa oggetti in terra, urla, minaccia, poi sbatacchia la porta e se ne va? Rispettatissimo. Temutissimo». Ironico ma purtroppo convincente è lo scrittore brillante, ormai dimenticato, Achille Campanile, quando nelle sue Vite degli uomini illustri (1975) metteva in bocca a Socrate questo consiglio malizioso, la cui pratica è molto comune e che può essere messa sotto il segno del quarto vizio capitale, l’ira.
Persone prepotenti, in palese torto, eppur rispettate, sfilano incessantemente nella storia, sbeffeggiando coloro che sono convinti della forza della ragione e sono però sconfitti. Trattare della collera, della sua sguaiatezza, del suo non raro furore cieco è facile, anche perché esiste una letteratura immensa che attraversa i secoli e che ha il suo capostipite classico nell’«ira funesta» dell’Achille omerico, oppure nell’«ira mala» castigata nel quinto cerchio dell'inferno dantesco (canto VIII), in cui gli iracondi sono «attuffati nella broda» e «nella morta gora» della palude Stigia. Per non parlare poi di quella tragedia tutta insanguinata che è il Macbeth di Shakespeare.
Come sempre dobbiamo ricordare che il vizio è una pianta velenosa che cresce da una radice sana: l’indignarsi e schierarsi con forza per la giustizia, la verità e il bene è una virtù, come insegna Gesù (si legga il c. 23 di Matteo); la rabbia cieca e furiosa è, invece, solo distruttrice e si alimenta di istinti brutali, tant’è vero che spesso si usano immagini di fuoco divampante o di sfrenatezze fisiche: l’ira è attizzata e si accende, divampa gettando olio sul fuoco, la voce si fa strozzata, si digrignano i denti, si ha la bava alla bocca, si è accecati e così via.
Noi nelle puntate che dedicheremo a questo peccato ci riferiremo soprattutto alla Bibbia, sottolineando però che non ne tratteremo l’aspetto più tragico, la violenza, che è la sostanza del vizio. Essa celebra i suoi trionfi in una realtà infame, di cui siamo incessantemente testimoni a livello corale, la guerra. Sappiamo, infatti, che l’Antico Testamento è striato del sangue di conflitti bellici di ogni genere, attestando così che la Rivelazione biblica è lo svelamento della presenza di Dio non in un mondo celeste e dorato di luce, ma nella polvere insanguinata della storia, ove cammina accanto a noi da «Emmanuele», cercando di condurci fuori, rispettando la nostra libertà, ma anche giudicandone gli errori e i crimini.
La scena biblica emblematica per iniziare a parlare dell’ira violenta potrebbe essere quella celebre di Caino e Abele ove s’intreccia all’odio la gelosia. Ma domina su tutto il terribile canto della vendetta furibonda di Lameck, discendente di Caino, un canto incessantemente reiterato nei secoli: «Io uccido un uomo per una scalfittura, un ragazzo per un mio livido. Se Caino è vendicato sette volte, Lameck lo sarà settantasette» (Genesi 4,24). Facile è, per contrasto, pensare all’antitesi di Cristo che inviterà Pietro a perdonare «non sette, ma settanta volte sette» (Matteo 18-22).