Chi, tra qualche settimana, andrà in vacanza al mare, starà serenamente disteso davanti a quella superficie d’acqua il cui confine si perde all’orizzonte. Per l’uomo della Bibbia le sensazioni erano diverse: jam, il «mare», o majjîm rabbîm, le «grandi acque», erano una sorta di mistero oscuro e minaccioso, un grembo popolato di mostri, il Leviatan, simile a un enorme coccodrillo, Behemot come un imponente ippopotamo, Rahab e i Tanninîm, altri pericolosi esseri marini. In altri termini, il mare era il simbolo del male e del nulla, tant’è vero che nella perfetta creazione redenta, la Gerusalemme celeste, il Giovanni dell’Apocalisse dichiara: «Vidi un cielo nuovo e una terra nuova; il cielo e la terra di prima erano scomparsi, e il mare non c’era più» (21,1).
Con questa premessa presentiamo – nel nostro percorso all’interno del mondo visto con gli occhi degli autori biblici – le pagine della Genesi riservate al diluvio (capitoli 6-9), un evento che è una sorta di decreazione posta in antitesi alla creazione descritta nei capitoli precedenti, e quindi una catastrofe cosmica. Si tratta di un tema che parte da un dato reale, i cataclismi naturali, ma che trascende in simbolo universale, tant’è vero che è presente in molte civiltà distanti tra loro: lo si trova in Egitto nel Libro dei morti e nel mito greco di Deucalione e Pirra, è evocato tra gli aborigeni dell’Australia ed è can- tato anche in India, lo conoscevano gli Amerindi e affiorava anche in Nuova Guinea, Indonesia e Birmania.
Lo stesso racconto biblico della Genesi ha un indubbio referente in alcuni antichi testi mesopotamici come la celebre tavoletta XI dell’Epopea di Ghilgamesh e il Poema di Atrakhasis, con i quali si possono identificare ben 17 punti di contatto. Alla base di questo mito mesopotamico c’era probabilmente la memoria di una tragedia naturale, forse causata dai due fiumi Tigri ed Eufrate che, tra l’altro, per un tratto di 350 chilometri prima della foce, procedono quasi come su una tavola piatta (si ha un dislivello solo di una trentina di metri!): ogni rigonfiamento eccessivo delle loro acque poteva dar origine a esondazioni clamorose, tant’è vero che gli antichi Babilonesi erano ricorsi a un complesso sistema di canalizzazioni. È naturale che l’evento, una volta entrato nel mito, aveva subìto amplificazioni grandiose che la stessa Bibbia accoglie e che ovviamente non devono essere prese alla lettera.
Così, per esempio, l’arca di Noè, se stiamo alle misure esorbitanti indicate dal testo biblico, era simile a un grattacielo galleggiante lungo 156 metri, alto 30, largo 26, con una capacità di 70 mila metri cubi. Gli stessi ospiti di quell’imbarcazione sono descritti secondo una classificazione di stampo rituale, comprendente le coppie di animali puri e impuri sulla base delle distinzioni sacrali. La catastrofe, poi, acquista dimensioni planetarie, divenendo appunto un «diluvio universale». Non ha quindi molto senso assumere alla lettera questi e altri dati, né tanto meno – come ha fatto qualche buontempone (tra di loro anche un astronauta americano) – è possibile andare alla ricerca dei resti lignei dell’arca sul monte Ararat in Turchia.
La Genesi con questo termine fa riferimento all’accadico Urartu che in realtà era una regione montuosa, identificata poi con l’Armenia che, tra l’altro, considera quel monte dalla cima sempre innevata come un suo simbolo, anche se ora collocato politicamente in Turchia (ma è ben visibile anche dalla capitale armena Erevan). Anni fa uno scrittore olandese, Franz Westerman, ha pubblicato un affascinante racconto della sua ascensione alla vetta sacra e quasi inviolabile dell’Ararat (ed. Iperborea 2010). A questo punto ci chiediamo: qual è il vero significato di questo racconto biblico? È ciò che spiegheremo nella prossima puntata del nostro viaggio nell’ecologia biblica.