Pastori alla sequela del Pastore
In quel tempo Gesù disse: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”.
Giovanni 10,27-28
Nella IV Domenica di Pasqua, detta “del Pastore buono”, dopo aver gioito per la Risurrezione (I di Pasqua), aver reso grazie per la misericordia di Dio, manifestatasi in Gesù (II di Pasqua), aver professato che Cristo è il Dio potente, crocifisso e risorto, atteso da tutte le Scritture (III di Pasqua), ci riconosciamo come “suo popolo, gregge del suo pascolo” (Salmo 99). L’Agnello, che è stato immolato ed è risuscitato dai morti, è il nostro Pastore: Lui noi seguiamo, e siamo parte già di quella “moltitudine immensa, che nessuno può contare”, che Giovanni, nell’Apocalisse (II lettura), vede stare in piedi davanti al trono di Dio. La visione dell’apostolo è grandiosa: chi ha creduto in Cristo è “passato per la grande tribolazione” ed è “avvolto in vesti candide”, perché le ha “lavate” nel “sangue dell’Agnello”. Quelli che seguono Gesù vivono in eterno con Lui: Egli “stende la sua tenda sopra di loro”, essi “non avranno fame né sete”, non saranno colpiti dal male, perché “l’Agnello li guiderà alle sorgenti della Vita” e “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.
Ci crediamo veramente? La profezia della vita eterna è contenuta nel dono del nostro Battesimo, di cui la liturgia di oggi fa memoria: in quel giorno, morti con Cristo all’uomo vecchio, abbiamo lavato il nostro peccato nel suo sangue, ci siamo rivestiti di una veste candida, segno del sacramento, e abbiamo ricevuto l’adozione a figli per risorgere con Lui. La vita eterna è dono che custodiamo dal primo istante: non c’è nemico che possa togliercelo.
Nel Vangelo di Giovanni Gesù dichiara di essere il Pastore buono, che ama le sue pecore e dà la vita per loro. “Nessuno può strapparle alla sua mano”, perché “il Padre, che gliele ha date, è più grande di tutti”, e “Gesù e il Padre sono una cosa sola”. Non c’è potere che possa strapparci dall’amore di Dio, giunto fino all’effusione del sangue del Figlio: nessun male contingente, nessuna sofferenza, nessun dolore, nessuna morte del corpo potrà mai toglierci la salvezza. Noi siamo sue pecore: ascoltiamo davvero la sua voce, come dice il Vangelo di oggi? È la nostra vita veramente una vita da redenti? O ancora le contingenze del quotidiano con il loro carico di sofferenze ci opprimono e ci impediscono di guardare alla salvezza che è certa ed è stata messa nelle nostre mani attraverso il potere della Chiesa? Abbiamo capito che è Gesù che ci mette in salvo come fa un pastore con il gregge, e che ha amore per tutte le pecore, e tutte le vuole condurre? O ci comportiamo come i giudei della I lettura (Atti degli apostoli), ostili alla “moltitudine” che Paolo, pastore sul modello di Cristo, “persuade a perseverare nella grazia di Dio”?
siamo suoi strumenti Pensiamo forse che la salvezza dipenda dalle nostre forze?
Siamo strumenti: Egli ci ha posto come “luce”, per “portare la salvezza” ove operiamo, e “fino all’estremità della terra” (cfr. Isaia 49,6). Ma non abbiamo meriti e neanche precedenze: siamo chiamati a dare quanto abbiamo ricevuto. Ed è dando che si riceve, come diceva san Francesco. La docilità al Maestro, l’ascolto grato delle sue parole per compiere la sua volontà, l’azione pronta per realizzare il bene: questo ci fa discepoli, apostoli, pastori gli uni degli altri. Buona festa!