«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Luca 15,20
La quarta domenica di Quaresima è caratterizzata dalla gioia: la liturgia inizia con l’antifona tratta dal profeta che invita a rallegrarsi; il colore dei paramenti è attenuato rispetto al viola penitenziale e il rosaceo accenna proprio alla gioia, alla fioritura della primavera. È la misericordia di Dio che fa rifiorire la nostra vita, come racconta la splendida parabola della misericordia del Padre e dei suoi due figli, che presenta la pagina del Vangelo.
Il figlio minore rappresenta la nostra storia, storia di perdizione e di salvezza, di peccato e di grazia. Perché ha abbandonato la casa? Il Vangelo non spiega. E forse sarebbe difficile spiegare. Il ribelle che aveva lasciato spavaldamente la casa, in poco tempo perde tutto: i soldi, gli amici, la libertà.
Quando io – che sono quel figlio ribelle – ho capito di aver bisogno di lui, e torno, egli è però pronto ad accogliermi con una pazienza e un amore infinito. Ha compassione di me. Questo è un verbo bellissimo. Nell’originale greco Luca adopera un’espressione particolare che indica quell’amore viscerale tipico di una mamma per il suo bambino. Dio si paragona a un padre che ha l’affetto di una madre, sente questa compassione viscerale e profonda per il figlio, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia.
Il figlio maggiore sembra invece rappresentare i devoti senza cuore, i praticanti senza amore. Che sia obbediente, coscienzioso, lavoratore, la parabola lo dimostra chiaramente, ma altrettanto chiaramente risulta che la sua è un’esistenza inaridita per una mancanza totale di tenerezza. È l’atteggiamento di chi fa le pratiche religiose in modo servile, distratto, disinteressato, non coinvolto, non convinto, non appassionato, non mosso da un amore di figlio, bensì per abitudine, per tornaconto. E poiché non ama, non è capace di godere e di sentirsi libero. È un uomo senza amore e senza gioia.
Il figlio maggiore è immagine non solo degli scribi e farisei del Vangelo, ma anche di tutti i virtuosi tristi, di tutti i freddi professionisti del dovere, severi con sé stessi e più ancora con gli altri. C’è da augurarsi di non avere mai rapporto con questa “santità” terribile perché ha qualcosa di demoniaco. A che serve una perfezione che non conosca la misericordia? È una perfezione disumana, che si fa odiare. Meglio essere imperfetti ma ricchi di misericordia che perfetti e duri di cuore.
Il cardinale Martini, commentando proprio questa parabola, si chiedeva se il vangelo della misericordia non rischia di diventare, alla fine, un evangelo della faciloneria, del permissivismo, del disimpegno etico. E faceva notare che ci può essere in noi una ripugnanza nascosta ad accogliere Dio così com’è, a lasciarci invadere dalla sua misericordia, preferendo difenderci con la legge, con la giustizia, con il rigore etico del Vangelo.
«Ma il Vangelo della grazia – diceva – ha, come corrispondente in chi lo riceve, lo stigma della gratuità. Non c’è niente di più esigente della gratuità, proprio perché non ha limiti a differenza del vangelo della legge. L’esigenza del vangelo della grazia giunge a superare tutte le legalità e tutti i ruoli, perché ci tocca nel più intimo e ci invita al dono di noi stessi fino alla morte».