Da questa radice deriva il nome più caro ai cristiani, quello del Salvatore: indica una liberazione definitiva dal male, un dono divino che richiede la risposta della fede
E' in assoluto il nome più caro ai cristiani, Gesù: in molte nazioni per rispetto non è assegnato alle persone, tranne che nei Paesi ispanofoni (da noi, al massimo, è usato il diminutivo Gesuino o la forma composta Gesualdo). È noto che alla base di questo nome c’è il verbo ebraico jasha‘ (l’apostrofo inverso indica una consonante aspirata dell’alfabeto ebraico, la ‘ain, per noi di ardua pronuncia), che significa «salvare », come l’angelo spiega a Giuseppe, suo padre legale: «Tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Matteo 1,21).
Questo verbo risuona 354 volte nell’Antico Testamento (ben 136 volte nei Salmi come invocazione al Dio che salva) e ha prevalentemente come soggetto il Signore. La salvezza comporta anche la sfumatura di aiuto, di sostegno, di liberazione. Ecco qualche attestazione biblica del valore di questa parola ebraica così significativa, tant’è vero che si è soliti definire l’intero arco della Rivelazione divina come «storia della salvezza».
Esclama Davide: «Viva il Signore e benedetta la mia roccia, sia esaltato il Dio della mia salvezza!» (Salmo 18,47). Il giusto è destinatario di una promessa divina: «Chi offre la lode in sacrificio, questi mi onora; a chi cammina per la retta via mostrerò la salvezza di Dio» (Salmo 50,23). Per questo il fedele che si affida al Dio salvatore può procedere sereno sulle strade del mondo e della storia, come canta il profeta Isaia: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza» (61,10).
Ora, l’atto più alto di salvezza per la Bibbia è la liberazione dall’oppressione egiziana. Non si tratta, però, solo di un evento socio-politico, ma è il segno di una salvezza piena. È ciò che viene testimoniato nei capitoli 11-19 del Libro della Sapienza ove la vicenda esodica è trasferita sul piano della liberazione definitiva dal male. Dimensione storica e prospettiva spirituale s’incrociano tra loro, tant’è vero che lo stesso Gesù, quando guarisce un malato, ribadisce l’esigenza della fede, perché non è solo un ritorno alla salute ma l’ingresso nella salvezza interiore: «La tua fede ti ha salvato!» (Luca 8,48; 17,19).
Abbiamo iniziato la nostra spiegazione della parola jasha‘ connettendola al nome di Gesù che in ebraico è Jeshua‘ o, nella forma più estesa, Jehoshua‘. Quest’ultima forma è anche il nostro «Giosuè» ed è il cognome portato da uno dei massimi scrittori israeliani contemporanei, Abraham B. Yehoshua, nato nel 1936 a Gerusalemme, residente a Haifa, le cui opere sono state tradotte anche in italiano. Altri nomi di personaggi biblici, oltre a Giosuè, conservano al loro interno il verbo jasha‘ in forme diverse: è il caso del re di Giuda Giosia, ma anche dei profeti Isaia e Osea («Dio salva»).
Che la salvezza piena sia per eccellenza un dono divino, una grazia ed esiga la fede è attestato da questa affermazione del Salmista che poniamo a suggello della nostra analisi: «Il re non si salva (jasha‘) per un grande esercito, né un prode scampa per il suo grande vigore. Un’illusione è il cavallo per la salvezza (jasha‘)» (33,16- 17). Contro la logica della potenza e della forza si leva il vessillo della - ducia in Dio: «L’anima nostra attende il Signore: è lui il nostro aiuto e il nostro scudo» (33,20).