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martedì 15 ottobre 2024
 
Il blog di Gianfranco Ravasi Aggiornamenti rss Gianfranco Ravasi
Cardinale arcivescovo e biblista

La carie dell’invidia

«Tutti sono capaci di condividere le sofferenze di un amico. Ci vuole, invece, un’anima veramente bella per godere del successo di un amico». Sferzante, come spesso gli accadeva, lo scrittore irlandese Oscar Wilde (1854-1900) colpisce un peccato diffuso in tutti gli ambienti, non solo familiari, sociali, di lavoro ma anche ecclesiastici, l’invidia, il sesto dei vizi capitali, che stiamo per affrontare nel nostro ormai lungo viaggio all’interno dell’orizzonte oscuro del male.

Possiamo commentare la battuta di Wilde con l’annotazione di un altro scrittore noto, Alberto Moravia, che nei Nuovi racconti romani (1959) osservava realisticamente: «Dicono che gli amici si vedono nelle difficoltà. Io dico che gli amici li vedi nella fortuna, quando le cose ti vanno bene, e l’amico rimane indietro e tu vai avanti e ogni passo avanti che fai è per l’amico come un rimprovero o addirittura un insulto. Allora lo vedi l’amico. Se ti è veramente amico, lui si rallegra della tua fortuna, senza riserve. Ma se non ti è veramente amico, il tarlo dell’invidia gli entra nel cuore e glielo rode». Come si fa a restare indifferenti di fronte a un amico che soffre o è in miseria? Ma quando l’amico ha successo, sale sulla ribalta ed è lodato da tutti per le sue doti, allora «il tarlo dell’invidia ti entra nel cuore e lo rode».

Appare, così, un aspetto psicologico particolare dell’invidioso e del geloso, lo stravolgimento interiore. Il libro biblico dei Proverbi non esita a definire questo vizio come «una carie per le ossa» (14,30), mentre secoli dopo il grande Cervantes, nel suo Don Chisciotte, riconosceva che l’invidia è «un verme roditore» dell’anima e del corpo, «radice di mali infiniti». Invidiare è una maledizione e un tormento che non concede tregua e che avvelena l’esistenza. Non per nulla il profilo dell’invidioso è tradizionalmente contrassegnato dal volto livido, che segnala un tormento e un’agitazione interiore.

E dato che abbiamo lasciato ampio spazio alla letteratura in questa prima tappa della nostra descrizione dell’invidia, continueremo con un referente fondamentale per tutti i vizi, la Divina Commedia, che si nutre della dottrina morale cristiana. Dante la raffigura come una meretrice dagli occhi ruffiani e disonesti che s’aggira soprattutto nelle corti ma anche nelle città come Firenze, «piena di invidia» (Inferno VI, 50), ma anche in tutti noi perché «superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi» (VI, 74-75). Il girone che «sferza la colpa dell’invidia» è il secondo del Purgatorio (XIII, 38) ove sono di scena una nobildonna guelfa senese, Sapia, e un nobile ghibellino romagnolo, Guido del Duca.

Per il poeta questi invidiosi, coperti da un misero cilicio, subiscono una macabra punizione: hanno gli occhi cuciti con filo di ferro, per espiare gli sguardi cupidi e brucianti di gelosia e odio nei confronti del prossimo. Dante, per contrapposizione, riserverà a loro, nel canto XV del Purgatorio, un dialogo meditativo sull’amore che è la virtù opposta sia all’invidia sia all’ira, il vizio che occuperà il successivo girone dantesco e che noi abbiamo già considerato nelle precedenti puntate del nostro esame dei vizi capitali. In sintesi, col filosofo Baruch Spinoza nella sua Etica (1677) possiamo definire l’invidia come «quella disposizione che induce l’uomo a godere del male altrui e a rattristarsi dell’altrui bene».

 


08 giugno 2023

 
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