Ogni volta che sentono risuonare la parola «fondamentalismo», spontaneamente molti vi associano l’aggettivo «islamico». Le ragioni sono ben note e, in certi ambiti, sono fondate. Tuttavia il fenomeno è comune a tutte le religioni, persino a quelle basate sull’amore, la pace, la solidarietà, come il cristianesimo e l’induismo. In verità il termine fu coniato in seguito a un congresso biblico celebrato a Fort Niagara (nello stato americano di New York) nel 1895, quando si vollero definire le verità «fondamentali» della Bibbia.
Tra queste, oltre a dati come la divinità di Cristo, la sua espiazione del peccato umano con la sua morte, la sua e nostra risurrezione corporale, era collocata anche la verità letterale (o inerranza verbale) delle Scritture. Fiorì, così, una lettura della Bibbia in una modalità rigida e di ricalco dei suoi asserti così come suonano, spesso sul testo sacro non originale ma tradotto. Esemplari in questa linea sono i Testimoni di Geova, i cosiddetti gruppi «evangelicali», i telepredicatori di varie sette, soprattutto americane, ora però diffuse in tutto il mondo, alcuni movimenti carismatici.
Questo approccio al testo sacro è metodologicamente erroneo perché imbocca la via della negazione dell’Incarnazione e quindi della storicità della Rivelazione cristiana. Infatti se «il Verbo si è fatto carne», questo significa che la parola di Dio è stata espressa in un linguaggio umano ed è stata redatta, sotto l’ispirazione divina, da autori umani che si esprimevano secondo le coordinate storico-culturali in cui erano inseriti, usando modelli linguistici, visioni del mondo datate, generi letterari, fraseologie e simbologie condizionate da una determinata epoca storica. Ignorando questa dimensione “incarnata”, assumendo alla “lettera” i passi biblici, respingendo ogni corretta interpretazione e analisi storico-critica, si può non solo stravolgere la genuina comunicazione che la Bibbia vuole fare con il suo linguaggio ma anche paradossalmente raggiungere esiti antitetici rispetto al significato originario.
Per stare ai Vangeli, i fondamentalisti ignorano che quei testi non sono solo la presentazione diretta del Gesù storico, ma che la loro formazione coinvolge anche l’intervento della fede pasquale della Chiesa e le prospettive teologiche dei vari evangelisti: con questo atteggiamento come possono spiegare – poniamo – la diversità tra le «Beatitudini» riferite da Matteo (5,3-12) e quelle di Luca (6,20- 26)? O scegli le prime e rigetti le seconde (che, tra l’altro, comprendono anche le «maledizioni») o viceversa. In realtà esse rispecchiano un fenomeno storico e teologico che manifesta proprio l’incarnazione e l’attualizzazione della parola di Gesù nel contesto storico-ecclesiale delle varie comunità cristiane delle origini.
Ritorniamo, così, a un discorso complesso che stiamo svolgendo in queste puntate della nostra rubrica, quello dell’ermeneutica biblica o interpretazione corretta delle Sacre Scritture che abbiamo già avuto occasione di spiegare. Certo, se questa interpretazione non segue canoni rigorosi, può cadere negli eccessi estremi di relativizzare storicamente tutto o di assolutizzare teologicamente ogni asserto biblico.
Concludendo, il fondamentalismo ignora la realtà vera delle Scritture che sono Parola di Dio ma in parole umane e non sono frutto di un «dettato» divino, parola per parola. Questa fedeltà solo materiale merita il giudizio severo di san Paolo: «La lettera uccide, è invece lo Spirito che dà vita (2Corinzi 3,6). È ciò che cercheremo di dimostrare a coloro che continueranno a seguirci lungo questo sentiero d’altura della conoscenza biblica.