A partire dall’Ottocento per giungere fino ai nostri giorni le dottrine e le pratiche ascetiche e mistiche indiane hanno esercitato un fascino in Occidente, sostenute anche da una punta di esotismo ed esoterismo. In particolare attraeva la teoria buddhista del samsara, ossia della catena delle continue rinascite, strumento di purificazione progressiva e di eliminazione dell’instabilità fino alla pace definitiva del nirvana.
Diciamo subito che la teoria reincarnazionista – detta anche metempsicosi, con un rimando alla psychè, cioè alla trasmigrazione delle anime nei corpi – è estranea alla visione biblica della persona umana, che è netta nell’affermare il carattere unico e irripetibile del singolo uomo o donna creati da Dio, come lo è il legame intimo tra l’anima e il corpo individuali. In realtà, questa teoria, cara all’Oriente, si era già affacciata in alcune componenti del mondo greco classico, col pitagorismo e il platonismo.
Talora essa occhieggiava anche nel tardo giudaismo, soprattutto di impronta cabbalistica, e persino in certe correnti eterodosse dell’islam e dello stesso cristianesimo. In questo ultimo caso si faceva riferimento come base biblica a un’affermazione di Gesù pronunciata mentre scendeva dal monte della Trasfigurazione ed era interpellato dai discepoli sulla tesi del ritorno del profeta Elia prima della venuta del Messia. Cristo dichiarava che «Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto, anzi, l’hanno trattato come hanno voluto». A questo punto l’evangelista Matteo annota che «i discepoli compresero che egli parlava di Giovanni Battista» (17,10-13).
Tempo fa un lettore mi propose questo passo a sostegno di una possibilità della reincarnazione. In realtà si tratta solo di un’immagine che ha come base una frase del profeta Malachia: «Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (3,23). È noto, infatti, che la morte di Elia era stata descritta come un’assunzione al cielo per una perfetta ed eterna comunione col Signore (2Re 2,11-13). Era così sorta la convinzione che il profeta, vivente per sempre presso Dio, dopo la sua ascensione al cielo, sarebbe stato il messaggero divino destinato ad annunziare al mondo la venuta del Messia: nel giudaismo del III-II sec. a.C. fu soprattutto un apocrifo (cioè un testo non “canonico” né “ispirato”), il Libro di Enoch, a introdurre questa speranza che rimase sempre viva acquisendo varie forme e applicazioni.
Non per nulla ancor oggi nel rituale giudaico durante la circoncisione di un bambino si lascia libera la cosiddetta «sedia di Elia», nella speranza che egli si renda presente; nella cena pasquale si ha il «calice di Elia», tenuto colmo in attesa che egli venga a comunicare l’arrivo del Messia attraverso la porta di casa lasciata socchiusa. Si pensava anche che Elia venisse costantemente sulla terra, senza essere riconosciuto, a sostenere i poveri, i malati e i moribondi: non per nulla la folla crede che Gesù crocifisso, quando intona il Salmo 22 (Elì Elì lema sabachtàni), invochi Elia (Matteo 27,46-47), confondendo il suono iniziale di quelle parole (Elì Elì, «Dio mio, Dio mio») col nome del profeta.
Gesù, nella frase rivolta ai discepoli sopra evocata, partendo dalla tradizione riguardante Elia, usa l’immagine del profeta, considerato il precursore del Messia, e la applica a Giovanni Battista che era stato il suo annunziatore, incompreso e martirizzato (Marco 6,17-29). Anzi, in un’altra occasione – dopo avere tessuto il suo elogio – Gesù aveva ribadito questa identificazione simbolica: «Se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire» (Matteo 11,14). Siamo di fronte a una metafora, lontana dalla reincarnazione di Elia nel Battista.