« Tirata, appesa alle braccia delle sue due sorelle più grandi, che la tengono per mano, la piccola speranza avanza. E in mezzo alle due sorelle più grandi ha l’aria di lasciarsi tirare. Come una bimba che non avesse la forza di camminare. In realtà è lei che fa camminare le altre due». Così il poeta francese Charles Péguy, che nel 1911 le aveva dedicato un intero poema, Il portico del mistero della seconda virtù, immaginava la Speranza, che strattona le altre due sorelle maggiori, la Fede e la Carità, ad avanzare nella via della vita, anche oltre la frontiera della morte, senza attardarsi nelle crisi o nei cali di fervore.
Lo stesso poeta, però, era consapevole che tante volte ci vuole l’ostinazione di una bambina per procedere, essendo forte la tentazione di sostare ai bordi di quella via: «È sperare la cosa difficile, a voce bassa e vergognosamente. La cosa facile è disperare, ed è la grande tentazione».
Dopo aver trattato il tema della fede, eccoci dunque alla seconda virtù teologale, la speranza appunto. È interessante notare che una delle opere fondamentali al riguardo è stata scritta da un filosofo agnostico tedesco, Ernst Bloch, che ha pubblicato tra il 1954 e il 1959 un importante studio in tre volumi intitolato Il principio speranza (tradotto da Garzanti nel 1994).
Egli, sia pure dalla sua prospettiva marxista, ma non dogmatica, esaltava questa virtù che è come il fermento nella pasta della storia, che spinge a guardare sempre verso l’oltre e il «non ancora» e che ha nelle religioni una presenza viva. Tant’è vero che il filosofo suggeriva che si potrebbe mutare l’antico proverbio, usato anche da Cicerone, «Finché c’è vita c’è speranza», motto spesso smentito da molte persone sane ma «disperate», in «Finché c’è fede, c’è speranza». È in questa luce – e lo diciamo per coloro che hanno fatto qualche studio teologico o vogliono approfondire le ragioni del loro credere – che il tedesco Jürgen Moltmann ha pubblicato un’importante Teologia della speranza (tradotta nel 1976 dalla Queriniana).
Il Dio di Gesù Cristo, infatti, non è relegato solo nella memoria, pur importante, degli atti di salvezza del passato, non è irrigidito in un eterno presente alla maniera del Dio Motore Immobile degli antichi Greci, ma invita la creatura a guardare oltre, ad attendere la liberazione piena, a non considerare la storia e la vita come votate al baratro del non-senso e del nulla.
È ciò che teologicamente viene chiamata escatologia: è la meta ultima (eschaton in greco è «la realtà ultima») da attendere. Essa, come un seme, germoglia già nella nostra esistenza presente; la speranza ce la svela e ci spinge, come la sorellina cantata dal poeta, a camminare verso di essa. A differenza di Ulisse che era rivolto sempre al passato perduto e il suo era un viaggio di ritorno (in greco nóstos, donde la nostra «nostalgia», malattia del rientrare sempre nel passato), Abramo è proteso verso un orizzonte futuro e ignoto, una terra e una discendenza che Dio gli ha promesso.
Sarà proprio Abramo ad aprirci le porte della speranza nella prossima puntata del nostro viaggio nelle virtù.