L’essere umano si differenzia dalle altre creature per la capacità di nominarle, che simboleggia non solo la sua autorità e responsabilità, ma anche l’impegno nella ricerca scientifica e tecnica
«Il Signore plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose i nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici» (Genesi 2,19-20). C’è, dunque, una nostra fraternità con gli animali, ed è la fisicità materiale organica: entrambi sono «plasmati» dall’argilla, un simbolo biblico (il riferimento allusivo è al vasaio) per indicare appunto la comune qualità fisica.
C’è però una diversità che è ribadita a più riprese e segnala una nostra superiorità rispetto alle altre creature. Abbiamo già presentato nelle puntate precedenti di questo nostro viaggio nell’ecologia biblica due coppie di verbi applicati in modo esclusivo alla creatura umana: «soggiogare e dominare» e «coltivare e custodire». Ora, invece, si introduce il «dare il nome» agli altri esseri. È noto che nell’antico Vicino Oriente il nome è il compendio cifrato di una determinata realtà, ne esprime il senso, l’identità e persino il mistero. Imporre il nome è affermare un’autorità, un potere, una responsabilità sull’altro, così come cambiare il nome significa mutare il destino o la funzione di una persona: pensiamo, per esempio, al capo-clan Giacobbe che, dopo l’incontro-lotta con Dio nella notte alle sponde del fiume Jabbok, riceve un nuovo nome, quello che sarà anche del futuro popolo, Israele, del quale diventa il progenitore attraverso i dodici figli o tribù (Genesi 32,23-33). Giustamente lo scrittore tedesco Walter Benjamin affermava che «la creazione divina è completa quando le cose ricevono il nome dagli uomini».
Nella sapienza antica egizia elencare i nomi degli animali e delle altre realtà era in pratica l’opera di colui che noi ora chiamiamo lo scienziato. Perciò, il passo biblico citato esalta in un certo senso l’impegno della scienza che è una missione affidata alla creatura umana. Di scena è, quindi, l’homo technicus, che con la sua conoscenza decifra le strutture della realtà concreta e può anche trasformarle. Come abbiamo suggerito altre volte, non potendo farlo noi direttamente per ragioni di spazio, invitiamo i nostri lettori a prendere in mano la loro Bibbia, a cercarvi e a leggere una pagina stupenda che esalta la scienza e la tecnica: è il capitolo 28 del libro di Giobbe nei primi 11 versetti.
In conclusione dobbiamo aggiungere una nota. Il Creatore aveva assegnato all’uomo la compagnia degli animali perché «non è bene che sia solo, ma abbia un aiuto che gli corrisponda» (letteralmente in ebraico «che gli stia di fronte», alla pari). Ebbene, l’uomo, circondato dalle meraviglie del Creato e giunto alla sera della sua avventura lavorativa, tecnica e scientifica, confessa di essere ancora solo perché «non aveva trovato un aiuto che gli corrispondesse» (2,20). Sarà soltanto quando Dio avrà creato la donna che l’uomo scoprirà una vera compagna di vita «che gli stia di fronte», gli occhi negli occhi: a lei potrà comunicare gioie e sofferenze, speranze e delusioni, esperienze interiori e segreti. Per questo egli esclamerà: «Questa volta, sì, lei è osso delle mie ossa, carne della mia carne!»