«Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei stare seduto per ore a guardarlo». Con la tipica ironia inglese lo scrittore Jerome Klapka Jerome, nel suo romanzo più noto Tre uomini in barca (1889), sferzava il settimo e ultimo dell’elenco tradizionale dei vizi capitali, la pigrizia. A lui farà eco, anni dopo, il comico americano Groucho Marx (1895- 1977) con questa battuta: «Eravamo in tre e lavoravamo come un sol uomo. Cioè due di noi poltrivano sempre».
Certo, in tempi di disoccupazione il problema dell’assenza di lavoro acquista un profilo ben diverso. Tuttavia non si può ignorare che esistono sempre i fannulloni, per i quali ogni scusa è buona per farsi mantenere dalla famiglia o dal coniuge o dallo Stato o dalla solidarietà sociale. Ed è proprio su questa colpevolezza che noi puntiamo ora la nostra attenzione, nella consapevolezza che chi vuol fare qualcosa trova sempre un mezzo per farlo; chi non vuole far niente trova sempre una scusa.
È vero che nella nostra società contemporanea a dominare è la frenesia, una legge che regola i movimenti della stessa viabilità, i risultati da ottenere, la comunicazione attraverso i canali informatici, la strumentazione della tecnologia. Eppure spesso sotto questo flusso incessante si cela una deriva che abbassa la tensione interiore e che trascina la persona nel disimpegno e nell’indifferenza.
Forse una nuova forma del vizio è la svogliatezza, l’apatia, l’abulia, il torpore dell’anima. Nella storia dell’ascetica antica si catalogava un peccato denominato in greco akedía, divenuto la nostra «accidia», un vocabolo ormai inusuale.
In realtà, però, il suo significato era allora diverso: oggi è catalogabile proprio come indifferenza grigia e molle, simile a una nebbia, un’esperienza che registriamo nei nostri giorni, «amorali» più che «immorali». Nel mondo spirituale dei primi secoli cristiani, invece, l’akedía indicava una noncuranza, un cedimento, una trascuratezza un po’ scoraggiata e triste. Secondo i maestri spirituali di allora si configurava in essa una tentazione radicale.
Infatti, il monaco nella silenziosa solitudine del suo cenobio e l’eremita negli spazi del deserto, quando incombeva forse il calore implacabile del sole, sentivano dentro di sé una mollezza fisica, un allentamento dello spirito, una rilassatezza che li spingeva a lasciar perdere gli impegnativi sentieri d’altura dell’ascetica e degli esigenti precetti evangelici, per accomodarsi nella valle quieta e ombreggiata della mediocrità, della piattezza, dell’indifferenza appunto.
Con tutte le debite distanze, un eccesso estremo di questa malattia dell’anima ha la sua cupa e terribile fisionomia anche nella persona tossicodipendente. Travolta dal narcotico (e il termine è significativo perché rimanda al sonno della mente), si raggomitola in sé stessa, ignora la pioggia che cade su di lei o il sole che batte sul suo capo e si accascia ai margini della strada ove scorre una vita che le è indifferente. Altre ovviamente sono le tipologie del vizio capitale dell’inerzia che stiamo considerando, ed è per questo che dovremo riprenderne l’analisi nella prossima puntata della nostra rubrica.