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domenica 25 maggio 2025
 
Il blog di Gianfranco Ravasi Aggiornamenti rss Gianfranco Ravasi
Cardinale arcivescovo e biblista

Malattie inguaribili, ma non incurabili

Nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell’aver sofferto. Nulla sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla di fronte a Dio abbellisce l’anima più dell’aver sofferto ». Era il XIII secolo e Meister Eckhart, geniale e provocatorio teologo e mistico tedesco, affidava a queste righe una verità che un po’ tutti abbiamo sperimentato in noi stessi o in chi conosciamo e amiamo. Del dolore parleremo anche noi questa volta, convinti di una certa impotenza a dire qualcosa di incisivo e decisivo. Lo facciamo perché in questo fine settimana è in calendario il Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità.

Anche per Gesù, questo è stato un tema capitale nella sua vita. Nel noto discorso programmatico che tiene nella sinagoga di Nazaret, annunciando «l’anno di grazia del Signore», in pratica il suo “Giubileo”, pone tra i cardini della sua missione il rendere «ai ciechi la vista» (Luca 4,16-19), scegliendo una malattia emblematica anche a livello spirituale. «Il Signore ridona la vista ai ciechi», cantava già il Salmista (146,8) e, alla venuta del Messia, «si apriranno gli occhi ai ciechi» (Isaia 29,18; 35,5; 42,7).

Le mani di Cristo sono incessantemente protese verso i malati: se stiamo alle pagine che l’evangelista Marco dedica alla missione pubblica di Gesù, i racconti dei miracoli occupano il 47%. Per far questo, egli non esita a trasgredire anche le norme della Legge biblica: il lebbroso, considerato un paziente infettivo ma anche e soprattutto uno “scomunicato” costretto all’isolamento sociale, non solo è incontrato da Cristo ma anche “toccato”, quasi ad assumere su di sé il male dell’altro (cfr. Marco 1,40-45).

Appare, così, un aspetto particolare della sua “compassione”, del “patire con” colui che soffre, partecipando al suo tormento, come nel caso del figlio della vedova di Nain, ove Luca usa per esprimere l’emozione di Gesù il verbo materno delle viscere che si commuovono (splanchnízomai), entrando quindi in sintonia con la sofferenza di quella madre. In questa luce – anche per noi stessi, suoi discepoli – dovremmo dire che non esistono malattie incurabili, esistono solo malattie inguaribili.

L’essere malato non è solo una questione biologica o fisiologica, ma è un’esperienza esistenziale. Certo, al capezzale del paziente è necessaria la presenza della scienza medica, ma si devono accostare anche l’umanità e la spiritualità. La terapia e l’assistenza sanitaria devono dare il loro contributo tecnico, ma il malato invoca implicitamente anche amore, vicinanza, “sim-patia”, cioè un po’ di comprensione e condivisione, appunto la “com-passione” a cui prima alludevamo. Come ha fatto Gesù, è necessario operare una sorta di intreccio che esprimiamo con due verbi inglesi assonanti tra loro, to cure che rimanda alla terapia, e to care, che implica amore e prossimità a chi soffre. Cristo guariva ma era anche vicino alle varie miserie umane.

Egli non ha sanato tutti i malati di allora e, in questo modo, possiamo dire che si conferma quanto abbiamo sopra affermato: esistono sindromi invincibili, legate al limite creaturale, ma è altrettanto vero che esse non sono incurabili nel senso che possono ricevere sempre la “cura” affettuosa e la vicinanza umana.


03 aprile 2025

 
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