Spesso la lingua italiana rivela in filigrana la sua matrice greco-latina, anche se si registrano poi evoluzioni nel significato. È il caso della parola che ora considereremo, partendo dall’italiano «martirio, martire». Nel greco del Nuovo Testamento troviamo almeno tre vocaboli fratelli tra loro: martyría, «testimonianza» (37 volte), martyréô, «testimoniare» (46 volte) e mártys, «testimone» (35 volte), per non parlare poi di altre variazioni. Per la nostra analisi partiremo da lontano, dall’Antico Testamento.
La categoria giuridica della «testimonianza» è fondamentale per un corretto sviluppo delle relazioni interpersonali e sociali. Non per nulla uno dei comandamenti del Decalogo risuona così: «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Esodo 20,16). E il monito riguardava allora soprattutto l’ambito giudiziario, come è poi ampiamente attestato dalla legislazione biblica. Il rilievo del testimone – in particolare nel caso della pena capitale – era tale che nella lapidazione i primi esecutori della sentenza, scagliando appunto «la prima pietra», erano i testimoni accusatori (Deuteronomio 17,7; Giovanni 8,7). Molti processi biblici, compreso quello di Cristo, vedono in azione «i falsi testimoni», una presenza perversa e gravissima, considerato il rilievo della parola in una civiltà a matrice orale.
La «testimonianza» – che, tra l’altro, non era considerata valida nell’antica società orientale se emessa da donne, schiavi, minori, sordi, ciechi, muti o da persone già denunciate per falsità – diventa però nella Bibbia un simbolo teologico. Dio stesso «testimonia» la sua rivelazione tant’è vero che san Paolo definisce la missione apostolica come l’annunzio della «testimonianza di Dio», cioè della sua parola (1Corinzi 2,1). E san Giovanni nella sua Prima lettera ricorda che «la testimonianza di Dio è maggiore» rispetto a quella umana, per verità ed efficacia (5,9). Anche Cristo nel Vangelo di Giovanni rimanda alla testimonianza del Padre nei suoi confronti (8,17) ed egli stesso si presenta a più riprese come testimone del Padre, tant’è vero che l’Apocalisse lo definisce «il testimone fedele e verace» (1,5; 3,14).
Testimoni, poi, sono anche i profeti (Atti 10,43), come lo è esplicitamente Giovanni Battista che sale sulla ribalta della storia per «rendere testimonianza alla luce» che è Cristo (Giovanni 1,7-8) e dichiarerà esplicitamente: «Io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio» (1,34). L’intero popolo di Dio era già incaricato di essere il testimone dell’opera salvatrice compiuta dal Signore: «Voi siete i miei testimoni», ripete Dio stesso in Isaia (43, 10-12). Ecco, allora, la costante testimonianza anche degli apostoli che attestano in modo solenne la risurrezione di Cristo e la sua parola. Ma proprio in questa missione testimoniale si configura progressivamente un aspetto importante e drammatico, quello che farà della parola greca mártys, «testimone», il nostro vocabolo «martire».
A partire dal popolo ebraico, davanti al quale i discepoli rendono la loro prima testimonianza pasquale, fino all’Impero romano presso il quale Paolo dovrà «rendere testimonianza» (Atti 23,11), si compirà l’annunzio che Cristo aveva riservato ai missionari del Vangelo: «Vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani» (Matteo 10,17-18). La testimonianza, martyría, si trasforma, così, in «martirio» vero e proprio che ha il suo primo emblema in Stefano, la cui morte è modellata sul «martirio-testimonianza» fondamentale che è quello di Cristo (Atti 7).
La «testimonianza» è, dunque, un tema fiorito nella vita sociale ma cresciuto nella teologia fino a diventare il segno dell’esistenza fedele sia dell’Israele di Dio, sia della Chiesa, sia di Cristo stesso «che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato» e al mondo (1Timoteo 6,13). «Anche noi, dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni […], corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Ebrei 12,1-2).