«Il superbo è come un gallo convinto che il sole sorga per sentirlo cantare». Divertente è questa immagine di una scrittrice inglese ottocentesca nota con lo pseudonimo di George Eliot. Facciamo, così, entrare in scena quelle persone boriose che allargano la ruota come il pavone (è un simbolo usato per la prima volta dal poeta latino Ovidio e divenuto un proverbio popolare in molte lingue) e ingrossano il collo come un gallo che canta, col rischio però di inciampare nella ridicolaggine, rivelandosi così più patetiche che offensive. Come sanno i nostri lettori più costanti, stiamo descrivendo i vizi capitali e lo facciamo a partire dal primo di essi, la superbia appunto.
I suoi lineamenti sono molteplici, perché può persino camuffarsi sotto il suo antipodo, l’umiltà. Un grande pensatore morale francese del ’500, Michel de Montaigne, affermava che «si può essere umili per orgoglio». C’è, infatti, quella che si suol definire «umiltà pelosa»: essa cela sotto un manto virgineo una segreta altezzosità rispetto agli altri considerati inferiori nella virtù. La vera umiltà è, invece, quella qualità che, quando la si ha, si crede di non averla. Inoltre, non bisogna mai dimenticare che spesso «Dio, non potendo fare di noi degli umili, fa di noi degli umiliati», come osservava un altro scrittore francese del secolo scorso, Julien Green.
E «umiliato» non sarà solo il superbo esplicito ma anche l’ipocrita, come canterà Maria nel Magnificat: «Dio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore» (Luca 1,51). Solo Cristo con verità potrà confessare: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Matteo 11,29). Ma ritorniamo alla superbia nella sua forma conclamata, senza dimenticare che non di rado essa è sorella dell’invidia perché l’orgoglioso non si rassegna al fatto che esistano persone che lo superano e quindi scatena contro di loro il suo odio, spesso nutrito di maldicenza e calunnia. Noi, però, nei vari ritratti dell’arrogante ci affideremo – come siamo soliti fare – alla Bibbia.
Questa volta proponiamo ai nostri lettori di seguire su una loro Bibbia una celebre pagina del profeta Isaia, il c. 14 del suo libro, che ha al centro il re di Babilonia, l’impero che già nel c. 11 della Genesi voleva dominare il mondo, imponendo un’unica lingua e sfidando Dio con la sua torre-tempio (ziqqurrat). Quel sovrano dichiarava: «Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il mio trono… Salirò sulle regioni che sovrastano le nubi, mi farò uguale all’Altissimo!» (14,13-14). Ma ecco, subito dopo, l’irruzione del vero Signore della storia che giudica il peccato di superbia: «E, invece, sei stato precipitato negli inferi, scaraventato nelle profondità degli abissi!» (14,15)
Isaia nel suo brano poetico interpella quel re col titolo orientale a lui assegnato, «Lucifero», ossia la stella dell’aurora. La tradizione successiva identificherà in questo nome il principe degli angeli ribelli, Satana, come dirà Gesù: «Vedevo Satana cadere dal cielo come folgore» (Luca 10,18). Ma il peccato di superbia attecchisce in tutti e non solo nei potenti e negli angeli. Ancora Gesù si rivolgerà così alla città del Lago di Tiberiade indifferente alla sua predicazione: «E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!» (Matteo 11,23).