Si tratta di un elemento fisico dal forte valore simbolico: indica la persona nella sua complessità ed è un segno espressivo di comunicazione. Un concetto applicato anche a Dio
«Il Signore Dio asciugherà le lacrime di ogni volto». Questo intenso annuncio di Isaia (25,8) ripreso dall’Apocalisse per la Gerusalemme celeste (21,4), introduce un elemento fisico che ha, però, una forte valenza simbolica. Per 2.127 volte nell’Antico Testamento appare il vocabolo panîm, «volto, faccia», e per 1.031 volte nella forma lipnê- che è il nostro «davanti a…», ma che letteralmente significa «davanti al volto di». Ogni incontro è, quindi, un dialogo dei visi, come ben sanno i veri innamorati che, quando hanno esaurito le parole, si guardano negli occhi in silenzio.
C’è un’altra nota suggestiva: panîm è un plurale destinato a denotare la complessità di un volto che non è mai un mero fenomeno di pelle, organi, carne e teschio, ma un vero e proprio segno espressivo di comunicazione. È per questo che spesso nella Bibbia il viso indica l’interiorità stessa di una persona come, ad esempio, avviene nel caso di Caino invidioso di suo fratello Abele: «Caino era molto irritato e il suo volto era abbattuto» (Genesi 4,5). O come accade in positivo ad Anna, la futura madre del profeta Samuele: dopo aver sentito il sacerdote Eli assicurarle che il Signore avrebbe esaudito la sua speranza di generare un figlio, «il suo volto non fu più come prima» (1Samuele 1,18).
La nostra attenzione punta, però, su una faccia misteriosa e gloriosa, quella di Dio. Proprio perché il volto designa la persona stessa, è facile comprendere come «vedere il volto» divino sia vietato e impossibile all’uomo, tant’è vero che si riteneva che non si potesse sopravvivere a quell’esperienza. Significativa è la reazione di Isaia nel giorno della sua vocazione profetica: «Ohimè! Sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono…; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti!» (6,5). Anche Mosè, che pure dialogava con Dio come un amico parla col suo amico («bocca a bocca io parlo con lui», Numeri 12,8), al suo desiderio di contemplare in pienezza e senza schermi la gloria del volto divino, riceve questa risposta netta di Dio: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo… Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo 33,20.23). Eppure nella Bibbia, attraverso il ricorso all’antropomorfismo, cioè a un modo umano simbolico per parlare di Dio, del Signore noi conosciamo gli occhi che scrutano gli uomini, la bocca che pronuncia oracoli e messaggi, le orecchie che ascoltano, persino il naso che sbuffa nell’ira. Anzi, nel Salterio progressivamente si delinea l’idea della possibilità di «vedere il volto di Dio» quando si accede al tempio nella preghiera (Salmi 11,7; 17,15; 42,3), così come la faccia di Dio che risplende sul suo popolo è segno di felicità e protezione, secondo quanto dice la bella benedizione «sacerdotale» di Numeri 6,25-26: «Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace».
Per questo, nel tempo del peccato e del giudizio divino, il Signore dichiara: «In quel giorno la mia ira si accenderà contro di loro: io li abbandonerò, nasconderò il mio volto e saranno divorati» (Deuteronomio 31,17). Il profeta Ezechiele ribadirà: «La casa d’Israele si è ribellata a me e io ho nascosto il mio volto e li ho dati in mano ai loro nemici» (39,23). I fedeli, invece, sono coloro che vanno alla ricerca del volto del Signore per contemplarne il sorriso, è «la generazione di quelli che cercano il volto del Dio di Giacobbe… Signore, il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto!”. Il tuo volto, Signore, io cerco» (Salmi 24,6; 27,8).