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martedì 06 giugno 2023
 
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Cardinale arcivescovo e biblista

PSYCHÊ: anima, persona, vita

Affrontiamo questa volta una parola che ha dominato nella cultura occidentale secondo varie e molteplici significati, definizioni e applicazioni: psychê, «anima», ma anche «persona, vita», in pratica l’interiorità che si manifesta però attraverso il corpo. Il vocabolo – che nel Nuovo Testamento è presente 103 volte e  che ha generato, ad esempio, i nostri termini «psicologia» o «psicoanalisi» – merita però una serie di precisazioni per quanto concerne il suo significato a livello delle Sacre Scritture.

«Secondo il pensiero biblico l’anima non è altro che la persona umana in quanto vivente nella sua carne. L’uomo è l’essere vivente nella sua totalità e non l’anima separata e distinta dal corpo». Queste e simili frasi sono comuni in tutti i testi che trattano la concezione della persona umana secondo le Scritture (la cosiddetta «antropologia biblica»). Ed effettivamente, se noi contempliamo l’uomo così come appare nelle pagine sacre, lo scopriamo come un microcosmo compatto, un essere unitario e vitale nel quale non si può separare anima e carne, come farà la cultura greca, convinta che il corpo sia la tomba dell’anima.

Non per nulla essa esalterà l’immortalità dell’anima spirituale, mentre la concezione biblica opterà decisamente per la risurrezione dell’essere umano integrale e la Pasqua di Cristo ne è la suprema attestazione. Certo, non mancano anche nella Bibbia frasi che riflettono la visione greca, come appare spesso nel Libro della Sapienza, composto in epoca greco-romana, che esalta l’immortalità dell’anima giusta e che, ad esempio, offre frasi di questo genere: «Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri» (9,15). Tuttavia il sottofondo ideale di quello stesso libro e il filo continuo della Bibbia è una costante rappresentazione dell’unità psico-fisica della persona.

Se passiamo al Nuovo Testamento, troviamo passi che a prima vista sembrano opporre anima e corpo: «Non temete quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima. Temete piuttosto chi ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna» (Matteo 10,28). Tuttavia è facile comprendere che non siamo in quell’orizzonte culturale per il fatto che Gesù parla di «uccidere e far perire l’anima», un assurdo per la concezione greca dell’anima spirituale.

Cristo, allora, qui e altrove, intende considerare con la parola psychê la vita trascendente e piena, l’intimità divina offerta alla creatura attraverso la grazia. Dichiara, infatti, Gesù: «Chi vorrà salvare la propria psychê la perderà. Ma chi perderà la propria psychê per causa mia e del Vangelo, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero e poi rovinare la sua psychê? Che cosa darà l’uomo in cambio della sua psychê?» (Marco 8,35-37). Tendenzialmente è in gioco la vita, l’interiorità e la suprema sciagura non è tanto la morte fisica, ma il perdere la comunione vitale con Dio, radice della nostra risurrezione e della vita eterna con lui.

È ciò che san Paolo  puntualizzerà introducendo un nuovo termine, pnéuma, «spirito», che abbiamo approfondito nella scorsa puntata della nostra rubrica. L’uomo nella sua realtà creaturale – dice l’apostolo – è un «corpo psichico», ossia dotato della psychê, l’anima vitale, ma Dio gli dona il suo stesso Spirito che lo rende «corpo spirituale». La prima qualità dell’essere umano («psichico») lo vota alla morte, è solo con lo Spirito divino a noi donato che entriamo nell’eternità e nella gloria del Risorto (1Corinzi 15,42-44).

 

 


09 giugno 2022

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