«Voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro Maestro» (Matteo 23,8). «Giuda, il traditore, disse: Rabbì, sono forse io? Gli rispose: Tu l’hai detto!... Giuda si avvicinò a Gesù e disse: Salve, rabbì. E lo baciò» (Matteo 26,25.49). Abbiamo citato tre delle quindici volte in cui nei Vangeli il titolo rabbì è collegato a Gesù. Due volte troviamo la variante aramaica rabbunì, usata da Bartimeo, un cieco di Gerico (Marco 10,51), e da Maria di Magdala nell’incontro col Risorto all’alba di Pasqua (Giovanni 20,16).
Ebbene, questo titolo è applicato con reverenza a un maestro saggio («mio maestro») e ha dato origine al titolo «rabbino» ancor oggi comunemente usato. Alla base del termine c’è un aggettivo che risuona 474 volte nell’Antico Testamento, rab (si può pronunciare anche rav). Esso ha un significato più generale: «grande, numeroso», spesso con un valore spirituale. Così, può essere una definizione che Dio offre di sé stesso: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande (rab) nell’amore e nella fedeltà» (Esodo 34,6).
È ciò che canta anche il fedele: «Quanto grandi/numerose (rab) sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza» (Salmo 104,24). Dio entra in scena con questo titolo anche come giudice e salvatore, in una rappresentazione sorprendente del profeta Isaia. Egli, infatti, avanza con la «veste rossa come di chi pigia il torchio», perché la vendemmia è un simbolo del giudizio divino. E proclama: «Sono io che parlo con giustizia e sono grande (rab) nel salvare» (63,1-2).
Ma questo aggettivo onorifico può essere applicato anche all’uomo. È il caso di Salomone nel ritratto presente nel Primo Libro dei Re: «La sapienza di Salomone era più grande (rab) della sapienza di tutti i figli d’Oriente e di tutta la sapienza dell’Egitto» (5,10). Questo può valere anche per ogni persona dotata di pazienza e generosità: «Chi è longanime ha grande (rab) prudenza» (Proverbi 14,29). Come si vede, c’è un legame intimo della sapienza, della giustizia e della bontà con la grandezza d’animo.
Si tratta, quindi, di una nobiltà interiore. Cristo, che pure si lascia interpellare come rabbì, non ama la riduzione di questo termine a un mero titolo onorifico, a una specie di cavalierato che non corrisponde al valore umano e spirituale di una persona. L’appellativo «rabbino» è, invece, l’espressione di una carica espletata, anche nell’attuale comunità giudaica, e che non è da identificare col nostro sacerdote.
Tuttavia si esige che la sua funzione – come deve accadere anche per il ministro di Dio nel cristianesimo – sia animata da un profondo impegno religioso. Il rabbino, infatti, è incaricato di trasmettere alla comunità che lo ha eletto i valori spirituali della Bibbia e della tradizione, deve vegliare sull’osservanza delle norme rituali e morali, dev’essere appunto una guida sapiente e amorosa nella vita dei fedeli.