Chi ci segue con costanza ricorderà che nella scorsa puntata della nostra rubrica abbiamo introdotto il simbolo «cuore», leb, con tutte le iridescenze dei suoi significati. Ora scegliamo in parallelo un’altra componente organica che diventa, però, un segno morale e spirituale. Si tratta del sostantivo plurale rahamîm (l’h è aspirata), usato nell’Antico Testamento 39 volte (c’è anche il singolare rehem, 30 volte, mentre il verbo di base, «avere viscere» in senso metaforico, echeggia 47 volte). Al di là della statistica, il valore del termine è suggestivo. Si designa, infatti, quasi sempre il grembo materno, le viscere generative, e si trapassa a un significato emozionale, destinato soprattutto a esaltare la misericordia tenera del Signore. Essere misericordioso è, quindi, secondo la Bibbia una qualità specifica divina. È curioso notare che tutte le 114 sure (o capitoli) del Corano (tranne la nona, frutto forse di un frazionamento) iniziano proprio con due aggettivi arabi modulati sulla stessa base linguistica di rahamîm: «Nel nome di Dio misericorde misericordioso (bismiLlah al-rahman al-rahim)». Certo, talora è la persona umana che prova un sentimento di «misericordia» (nell’equivalente vocabolo italiano è, invece, evocato il «cuore»), come auspica Giacobbe nei confronti del figlio Giuseppe, di cui ignora la nuova identità di viceré d’Egitto: «Dio l’Onnipotente faccia trovare misericordia (rahamîm) presso quell’uomo…» (Genesi 43,14). E Giuseppe, quando incontra i suoi fratelli, che pure l’avevano tradito e venduto, «si commuove nelle sue viscere (rahamîm)… e sente il bisogno di piangere» (43,30). Ma è soprattutto Dio a rivelare un volto contemporaneamente materno e paterno di tenerezza, perché il termine nelle variazioni indicate esprime un sentimento intimo di entrambi i genitori: «Come un padre prova tenerezza (rhm) per i suoi figli, così il Signore prova tenerezza (rhm) verso quelli che lo temono», cioè credono in lui (Salmo 103,13). A Mosè che desidera vedere la gloria divina il Signore risponde: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e a chi vorrò aver misericordia (rhm) avrò misericordia» (Esodo 33,19). E quando passerà davanti a Mosè, Dio proclamerà quella che è stata definita come «la carta d’identità» divina, che inizia proprio così: «Il Signore, il Signore Dio misericordioso (rhm) e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (34,6). Abbiamo usato sempre le tre consonanti r-h-m che, secondo la grammatica ebraica, sono alla base del sostantivo e del verbo che indica appunto le «viscere di misericordia, amore e tenerezza» e che risuona nei vari testi citati. Concludiamo con una nota importante. Abbiamo già visto che nel Corano la parola ora commentata è fondamentale per definire Dio. Essa lo è anche nel Nuovo Testamento che la traduce in greco con l’equivalente del verbo splanchnízesthai: esso risuona 12 volte e significa appunto «avere viscere di tenerezza misericordiosa». Il verbo è applicato, ad esempio, al buon Samaritano e al padre del figlio prodigo (Luca 10,33; 15,20). È l’emozione che prova Gesù in persona quando s’imbatte nel funerale del figlio unico della vedova di Nain (Luca 7,13) e quando ha davanti a sé la folla affamata (Marco 6,34) o un lebbroso (1,14). Come suggeriva san Benedetto nella sua Regola, «non disperare mai della misericordia di Dio!» (IV, 74).