La parola «carne» ha assunto nella nostra cultura connotati specifici che sono lontani dalla concezione biblica: per noi, infatti, oltre al significato immediato fisiologico, essa denota la sessualità, spesso nella sua forma più istintuale, «carnale» appunto, oppure si contrappone all’anima e alla spiritualità, riferendosi
alla materialità corporale. Noi ora cercheremo di illustrare il valore biblico di questo termine che in greco è sárx (presente, ad esempio, nei nostri vocaboli «sarcofago, sarcoma») e che nel Nuovo Testamento ricorre ben 147 volte. Partiamo dal parallelo ebraico basar che abbiamo spiegato lo scorso anno nel nostro mini-vocabolario di parole ebraiche da conoscere.
Il termine vuole sottolineare la dimensione dell’essere vivente in quanto esso è legato alla sua fragilità, alla sua immersione nel perimetro limitato del tempo e dello spazio, al suo esistere caduco e mortale. È in questa luce che si comprende il contrasto tra la creatura e Dio che è «spirito», ossia essere eterno, infinito, perfetto e pieno. Come osserva Isaia: «L’Egiziano è un uomo e non un dio, i suoi cavalli sono carne e non spirito» (31,3).
Passando al Nuovo Testamento, lo stesso significato è presente in sárx, come emerge in modo nitido nel mistero centrale dell’Incarnazione: il Verbo, Parola eterna e creatrice divina, in Gesù Cristo diventa sárx, cioè si fa tempo e spazio, sperimenta il limite, il dolore e persino la morte (Giovanni 1,1.14). Similmente è importante il discorso sul pane di vita che Cristo tiene nella sinagoga di Cafarnao: «Il pane che io darò è la mia carne» (si legga Giovanni 6). La provocazione di Gesù è evidente, e comprensibile è la reazione del suo uditorio, se si pensa che una delle proibizioni più forti bibliche riguardo al cibo era proprio quella di
«non mangiare la carne con la sua vita, cioè col sangue» (Genesi 9,4).
Naturalmente Gesù non voleva indurre all’antropofagia sacra ma, proprio sulla base del valore sopra citato di sárx-«carne» come esistenza e persona umana, proponeva quell’intima comunione tra lui e il fedele che l’Eucaristia attua. «Mangiare la carne» di Cristo diventa, allora, un’espressione netta e incisiva per esaltare la piena comunione tra Dio e l’uomo. E i segni del pane e del vino permettono, nella storia umana, di realizzare questa profonda unione. Dobbiamo, però, subito aggiungere che questa parola acquista un significato radicalmente diverso nel linguaggio paolino.
Il termine riceve, infatti, una forte connotazione negativa: la «carne» per l’apostolo è il principio del peccato che in noi opera e che la grazia divina, accolta attraverso la fede umana, riesce a vincere. Alla «carne», che ci spinge a opere perverse o all’illusione di salvarci da noi stessi con la pura e semplice osservanza della legge, si oppone lo Spirito divino che agisce in noi e ci conduce alla comunione vitale con Dio: «Chi semina nella carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna» (Galati 5,8); «Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dato che lo Spirito di Dio abita in voi» (Romani 8,9).
È per questa nuova accezione assunta dalla parola «carne» che, scrivendo ai Romani, Paolo afferma che
Dio «ha mandato il proprio Figlio in una somiglianza della carne e del peccato» (8,3). L’uso del termine «somiglianza» non significa che il Figlio diDio sia solo una parvenza di umanità, perché – afferma l’apostolo – Cristo è «nato dalla stirpe di Davide secondo la carne» (1,3), divenendo quindi vero
uomo fatto di carne; egli, però, non ha in sé quella potenza negativa distruttrice che è la «carne del peccato».