Amati e invitati alle nozze del Re
Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire». Matteo 22,1-3
La festa prefigurata nelle scorse domeniche, simboleggiata dalla vigna e dal vino, è oggi al centro della liturgia: siamo creati a immagine di Dio, che è amore e relazione tra Persone, e chiamati, nel Battesimo, alla comunione perfetta, in una festa che non ha fine. Il Signore, nostro padre, è un «pastore» buono, che ci «conduce ad acque tranquille» e «prepara una mensa» (Salmo 22, Responsorio), «un banchetto di cibi succulenti, di vini raffinati per tutti i popoli»: distrugge la morte e asciuga ogni lacrima» (Isaia 25, I Lettura). Siamo la sua famiglia, chiamati ad «abitare nella sua casa per sempre», senza affannarci nel dolore e nell’indigenza, come vedove od orfani, ma vivendo nella pace, nella gioia e nella festa, come figli amati del Re onnipotente.
Con questa consapevolezza, «tranquilli e sereni come un bimbo in braccio a sua madre» (cfr. Salmo 131), possiamo vivere sicuri in ogni situazione, «povertà o abbondanza, sazietà o fame», perché «tutto possiamo in Colui che ci dà forza» (Filippesi 4, II lettura). Troppe volte però rischiamo di disperdere quanto abbiamo ricevuto: il Re ci invita continuamente alla festa di nozze del suo Figlio, ma noi «non vogliamo andare»; rinnova l’invito attraverso i suoi servi, i fratelli che mette sul nostro cammino per richiamarci a quello che conta, e «non ce ne curiamo, andando chi al suo campo, chi ai suoi affari»; qualcuno addirittura si rivolta contro i servi del Re, «li insulta e li uccide». Quanto al nemico, principe di questo mondo, riesce ad allontanarci dal Signore, attraverso le lusinghe terrene di cui è maestro e gli impegni quotidiani, talora eccessivi, che ci obnubilano e ci rendono schiavi! In questo modo mostriamo di essere indegni di una chiamata gratuita che ci ha raggiunti senza merito e che chiede solo, come per Abramo, adesione e fiducia. Il matrimonio, festa dell’unità e della vita, è un simbolo potente nella Scrittura: definisce la dimensione esclusiva e totale dell’Amore di Dio per il suo popolo e ben simboleggia la fede biblica; in esso risplende, attraverso i coniugi e la loro fedeltà, che si fonda sulla fedeltà di Dio, l’Amore di Cristo sposo per la Chiesa, sua sposa e suo corpo, da Lui nata come la iša dall’adam, che rinnova le proprie mistiche nozze con l’Agnello in ogni Eucaristia, festa in cui rifulge la Vita senza fine donata dal Dio vivente. Tutti, «cattivi e buoni», vi sono chiamati «dai crocicchi delle strade», luoghi di dubbia moralità, e «la sala si riempie di commensali».
Guai a ritenersi in diritto di entrare alla festa e a non curare il proprio «abito nuziale», pensando di essere già perfetti e non bisognosi di salvezza: nel Vangelo di Matteo, che si rivolge specialmente ai cristiani provenienti dal giudaismo, Gesù insiste su questo punto, perché ciascuno si riconosca indegno sì, ma investito di grande misericordia nel Battesimo, il sacramento che ci offre «la veste» candida dei figli, lavata nel sangue dell’Agnello, da custodire con la luce della fede come dono prezioso nelle vicende della vita.