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Il 1° novembre San John Henry Newman viene proclamato Dottore della Chiesa da papa Leone XIV nell’ambito del Giubileo del mondo educativo. Prevost ha indicato anche il Santo come co-patrono della missione educativa della Chiesa, assieme a san Tommaso d'Aquino. Ma chi era Newman? Si convertì dal protestantesimo alla fede cattolica, e lo imitarono in migliaia già nel corso della sua vita.
Ma quante conversioni abbia innescato con i suoi scritti e sermoni non è dato calcolarlo. Certo è che senza l’influsso più o meno diretto delle opere di John Henry Newman non si sarebbero convertiti al cattolicesimo scrittori come Gilbert K. Chesterton, Hilaire Belloc, Bruce Marshall, John R.R. Tolkien o Clive S. Lewis.
Perché, oltre che un oratore magnetico, Newman era un maestro di stile. Lo stesso James Joyce confesserà di invidiare la «vena argentea» del suo linguaggio.
Solo il cuore parla al cuore
Fu papa Leone XIII a volere Newman come cardinale, riconoscendogli «genio e dottrina», ed è papa Leone XIV a proclamarlo Dottore della Chiesa. Quando Newman fu raggiunto dalla notizia della porpora aveva già 78 anni. La sua vita, densissima, aveva conosciuto vertici di successo e cadute penose.
Se da giovane era stato amato e osannato come perfect gentleman e stella nascente della teologia anglicana, dopo la sua conversione al cattolicesimo molti amici presero le distanze, quasi fosse un traditore della nazione. Ma non era ben visto neppure là dove aveva scelto di entrare con gran costo personale, nella Chiesa di Roma e nella congregazione degli Oratoriani di San Filippo Neri.
Dubbi, sospetti, incomprensioni. Lui - sensibile, mite e obbediente - si era via via ritirato in silenzio, accompagnato dal fido confratello Ambrose Saint-John. Per il proprio stemma cardinalizio Newman scelse tre cuori. Non i cuori incoronati di Gesù e Maria sormontati da fiamme, spade e spine, ma tre semplicissimi cuori umani: umili, vibranti, palpitanti.
E come motto? Non una citazione dalla Sacra Scrittura, ma una propria convinzione interiore: Cor ad cor loquitur, ovvero “Solo il cuore parla davvero al cuore”. Scelte tanto intime quanto solide e profonde, eppure ancora oggi malamente chiacchierate, figurarsi nell’abbottonatissima Inghilterra vittoriana che qualche anno dopo avrebbe spedito in carcere Oscar Wilde. Dei giudizi degli uomini, però, Newman aveva smesso di preoccuparsi già da molto tempo.
Una cosa soltanto gli era sempre premuta: la fedeltà alla propria coscienza. Dopo tutto, come osservò lo stesso Chesterton, «gente come Newman sopportava le grane più dei compromessi».
A 15 anni la passione religiosa
La biografia di Newman (1801-1890) coincide con la grande rivoluzione moderna che investe l’Inghilterra prima di riversarsi sull’intero Occidente: l’affermazione di un impero globale basato sul commercio, lo sviluppo di enormi aggregati urbani intorno ai poli industriali, il trionfo di un pensiero razionalista che applica le teorie di Darwin alla stessa società umana. Sembra quasi un gioco di parole: in un tempo di novità sconvolgenti, anche John Henry è un “uomo nuovo” (newman, in inglese).
Primo di sei figli, Newman nasce in una famiglia anglicana, ma la sua passione religiosa decolla solo a quindici anni quando, durante la prima di molte malattie, legge alcuni libri calvinisti. Sviluppa così convinzioni assai radicali, tanto che il giudizio sul papa cattolico è drastico: egli è l’anticristo. Il carattere di Newman è però molto amichevole, sebbene riservato, portato all’introspezione e fin troppo esigente con se stesso. È il suo stesso perfezionismo a mettergli i bastoni tra le ruote.
Consegue la laurea con il minimo dei voti, perché prosciugato di ogni energia dallo sproporzionato eccesso di studio. Sfumata l’ambizione d’intraprendere gli studi legali, Newman si decide per la carriera ecclesiastica. A 23 anni diventa diacono della Chiesa d’Inghilterra, e pastore l’anno seguente.
Si rimette ben presto in carreggiata anche con la carriera universitaria: viene eletto membro del corpo accademico del più prestigioso college di Oxford, l’Oriel College, dove affina la propria abilità retorica e si avvicina a un movimento che sottolinea l’aspetto razionale della fede.
La conversione
Dopo qualche tempo, però, Newman constata i limiti di questa impostazione. Cerca inutilmente di convertire alla fede suo fratello Charles, che si professa ateo, con lettere e lunghe discussioni argomentative. Ma in due anni di litigi non riesce a fargli cambiare idea.
E poi ci sono altre esperienze. La morte di sua sorella Mary. La propria stessa salute che si mostra sempre più fragile. L’amicizia con Richard Hurrell Froude, Edward Pusey e John Keble. Newman capisce che una vita e una fede centrate sull’eccellenza intellettuale sono invincibili solo in apparenza: l’autoreferenzialità non è che un’armatura per nascondere - e nascondersi - fragilità e vulnerabilità. Aspetti che invece il cuore ben conosce, custodisce e ama.
Dopo un’altra crisi in Sicilia, che mette a rischio la sua stessa vita, Newman vive un’esperienza spirituale di totale rinuncia alle proprie ambizioni e di consegna nelle mani di Dio. Così si rivolge a Lui: «Guidami Tu, Luce gentile, / attraverso il buio che mi circonda, / sii Tu a condurmi! [...] Amavo scegliere e scrutare il mio cammino; / ma ora sii Tu a condurmi! / Amavo il giorno abbagliante, e malgrado la paura, / il mio cuore era schiavo dell’orgoglio; / non ricordare gli anni ormai passati». Dai college all’oratorio In questi “anni passati” Newman aveva coronato ogni traguardo.
È l’incarnazione stessa dell’inglesità: suona il violino, cavalca per rilassarsi, scrive poesie, non manca il suo tè pomeridiano. È un esponente di punta per il rinnovamento dell’anglicanesimo - il Movimento di Oxford - e sostiene che la Chiesa d’Inghilterra sia una “via media” tra gli eccessi del cattolicesimo romano e gli errori del protestantesimo.
Si è costruito una vita terribilmente elegante, terribilmente moderata, terribilmente vittoriana. Ma è la sua coscienza, inquieta e scrupolosa, a tendergli un nuovo agguato. Newman studia gli scritti dei Padri della Chiesa per comprendere ciò che la Chiesa indivisa insegnasse nei primi secoli, prima dei grandi scismi. E scopre che l’idea di una “via intermedia” non soltanto non è una soluzione, ma è un errore antico.
Comincia così uno studio sulle origini del cristianesimo che lo impegnerà per quattro anni, poi pubblicato con il titolo Lo sviluppo della dottrina cristiana (1845).
Nell’opera è presente una frase rivelatrice, che svela quanto Newman sia personalmente investito dai risultati delle ricerche: «Vivere è cambiare, ed essere perfetti è aver cambiato spesso». Ormai non ha più dubbi: la coscienza gli impone di riunirsi alla Chiesa di Roma.
Lascia l’incarico di vicario della chiesa dell’Università e si ritira a Littlemore, un piccolo centro dove aveva fondato la chiesa parrocchiale. Lì, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 1845, consegna la propria confessione al passionista Domenico Barberi. Recatosi poi a Roma, viene ordinato sacerdote cattolico ed entra nell’ordine degli Oratoriani di san Filippo Neri.
Il carisma dell’Oratorio gli ricorda i suoi cari college inglesi, sebbene più sorridente, caloroso e umano: come in un’autentica famiglia, gli oratoriani vivono con gli stessi membri di comunità fino alla morte.
Ora Newman passa all’azione, e torna in Inghilterra per fondarvi il suo primo Oratorio. Cerca fondi, sceglie architetti, approva progetti. La località scelta è Birmingham, uno dei centri industriali in maggiore crescita, dove una popolazione impoverita e analfabeta si accalca nelle periferie.
A chi gli chiede perché non fonda l’Oratorio a Londra o in un centro intellettualmente più vivace, Newman risponde pacato: «Anche gli abitanti di Birmingham hanno dei figli».
«Attraverso le ombre e le immagini…»
E poi arriva la lunga stagione delle piogge: fredde, sempre più gelide, una appresso all’altra. Prima lo sgradevole coinvolgimento in un processo contro un ex domenicano accusato di abusi. Poi divergenze con i vescovi d’Irlanda sulla direzione dell’università cattolica di Dublino.
Qualcosa non funzione pure con i vescovi inglesi, che annullano la supervisione alla nuova traduzione della Bibbia che gli avevano commissionato. Il progetto di una rivista che avrebbe dovuto dirigere fallisce dopo un solo numero. E da Roma arrivano critiche a un suo articolo sul ruolo dei laici nella Chiesa (ancora oggi c’è chi si stranisce alla parola “sinodalità”, provate a immaginare nel 1849). Proprio a Roma crescono i malumori verso questa figura troppo acuta, forse invadente, di sicuro scomoda: l’ultimo venuto pretende di insegnare la conduzione della barca di Pietro? Ci vorranno otto anni e un viaggio in Vaticano del confratello e amico Ambrose Saint-John per riallacciare i rapporti e sciogliere i nodi di una matassa di silenzi, ambiguità e discredito. Newman, uomo sensibilissimo e non privo d’orgoglio, ha il morale a terra anche se regge tutti i colpi.
Quando però un articolo lo accusa di “disinteresse verso la verità”, la misura è colma: si mette alla scrivania e scrive una vibrante storia delle proprie opinioni religiose. L’Apologia pro vita sua (1865) riesce nell’intento di ripristinare la sua autorevolezza e di riguadagnare amicizie perdute anche tra gli anglicani. Che però lo mettono sempre alla prova. Quando, dieci anni dopo, il concilio Vaticano I stabilisce il dogma dell’infallibilità papale e i cattolici sono irrisi perché privi di libertà mentale, la sua risposta non si fa attendere.
La sua Lettera al duca di Norfolk (1874) diventa uno dei massimi trattati sul primato della coscienza al di sopra di ogni autorità umana, politica o religiosa che sia. Proprio per questo non è improbabile che, il prossimo 1° novembre, Newman riceva il titolo di Doctor conscientiae: il “Dottore della coscienza”.
«…fino alla Verità»
Di opere, peraltro, Newman ne scrive a getto continuo, passando da un genere all’altro con la naturalezza e l'immaginificità propria dei Padri della Chiesa: centinaia di sermoni, lettere, inni, poesie (Il sogno di Geronzio, 1855), romanzi (Callista, 1865), e ovviamente saggi teologici.
Su tutti svetta la Grammatica dell’assenso (1870) nella quale Newman, forse memore dei suoi fallimentari tentativi di “convertire” il fratello a colpi di ragionamenti, si interroga sulle condizioni di possibilità della fede nel più vasto quadro della vita interiore. La fede è infatti un atto personale che non si esaurisce nella sola comprensione razionale, perché è soprattutto obbedienza alla retta coscienza.
E dunque quali sono le predisposizioni interiori o morali indispensabili perché l’annuncio cristiano possa essere accolto? Quali sono le decisioni previe e inconsce che abitano il nostro cuore? Posso accogliere la fede se la mia mente è irrequieta? Se la mia capacità di stupirmi è atrofizzata? Se mi nutro di desideri piccoli e banali? Se ho smesso di avere fiducia che una verità o un senso della vita mi possa guidare? Se mi sono rassegnato a risolvere l’esistenza con le mie sole forze?
Newman ha una tale capacità di esplorare l’interiorità umana che Joseph Ratzinger lo ha accostato a sant’Agostino d’Ippona. Da cui si distingue, però, grazie a un accento molto specifico. Sempre nella Grammatica dell’assenso, Newman appunta: «Di solito il cuore non è raggiunto attraverso la ragione ma attraverso l’immaginazione». In un tempo che spiegava ogni fenomeno umano secondo paradigmi scientifici e meccanici (salvo poi infatuarsi per il paranormale e le sedute spiritiche), Newman riconsidera il ruolo chiave dell’immaginazione per sbloccare - o bloccare - le porte del cuore.
È talmente convinto di questo assunto che lo vorrà riportato persino sulla propria lapide: Ex umbris et imaginibus in veritatem (“Attraverso le ombre e le immagini si giunge fino la Verità”). Anche per questo egli ribadisce come, con i propri sermoni, non desideri conquistare il raziocinio delle persone senza averne al tempo stesso toccato il cuore, aprendo uno spiraglio per la grazia. La compenetrazione tra pensiero e vita sintetizza l’intera parabola di Newman, e proprio per questo l’allora cardinale Ratzinger riconobbe in Newman non solo un Dottore della Chiesa, ma un «grande» Dottore della Chiesa: «Il segno caratteristico del grande dottore della Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero» (28 aprile 1990, Discorso nel centenario della morte).



