Ferito a una gamba, ma lucido. Padre Gabriel Romanelli, il parroco della Sacra famiglia, la parrocchia latina nella parte vecchia della città di Gaza, è stato colpito nel corso di un raid che il Governo israeliano ha sferrato contro il monastero che dall’inizio della guerra dà rifugio alla popolazione cristiana e a intere famiglie in difficoltà. Il suo cellulare non smette di squillare. In tanti, infatti, cercano di contattarlo per avere notizie. Il parroco non si è mai risparmiato nel corso di questi anni. Ha fatto di tutto per rientrare a Gaza per stare accanto alla popolazione.

Era a Betlemme quel terribile 7 ottobre che ha segnato non solo una terribile strage di circa mille persone ai danni degli israeliani, ma anche l’avvio di una guerra che, tra i palestinesi, ha raggiunto il triste bilancio di 58 mila morti, in larga misura donne e bambini.

Per diverse settimane non era riuscito a ritornare a dare conforto ai suoi parrocchiani, ma si teneva in stretto contatto con padre Yusuf, il suo vice parroco. Poi il rientro e la condivisione delle difficoltà che sono di tutta la popolazione.

Ai primi di maggio, quando eravamo stati in Terra Santa, ci aveva confermato la difficilissima situazione, con i viveri che scarseggiavano, la farina setacciata più volte per togliere i vermi, l’acqua resa potabile, ma di colore verde, i continui allarmi. Ma la voce di padre Romanelli giunge sempre con un tono di positività. Le campane che suonano a dare coraggio alla stessa ora in cui arrivava la telefonata di papa Francesco, le attività con i ragazzi per far loro sentire di men il peso della guerra, la preghiera che sorregge la speranza. E il suo non volersi arrendere al male e alla guerra nonostante quella che anche nei giorni scorsi ha definito «una situazione disastrosa».  

Argentino di origini italiane, membro dell'Istituto del Verbo Incarnato, nonostante tutto continua a dare coraggio, a informarsi di come stanno gli altri, a seminare pace, a fare da ponte perché arrivino le notizie di quel che accade nella Striscia e perché la comunità internazionale intervenga a mettere fine a una carneficina.