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«I social media sono un luogo in cui le persone interagiscono, condividono esperienze e coltivano relazioni come mai prima d’ora». Quindi «la questione non è più se confrontarsi o meno con il mondo digitale, ma come farlo». Parte da questa semplice ma fondamentale considerazione “Verso una piena presenza”, una riflessione pastorale sul coinvolgimento con i social media che il Dicastero vaticano per la comunicazione ha diffuso domenica 28 maggio, solennità di Pentecoste. Va detto subito che è provvidenziale un testo del genere, se consideriamo che gli ultimi due documenti di quello che allora si chiamava Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, ovvero “Etica in Internet” e “La Chiesa e Internet”, risalgono entrambi al 2002: nell’era del Web è quasi preistoria.
Organizzato in 4 capitoli e 82 paragrafi, il testo - firmato dal Prefetto del Dicastero, Paolo Ruffini e dal segretario, monsignor Lucio Adrian Ruiz, ma frutto di un lavoro corale - si propone di «affrontare alcune delle principali questioni che riguardano il modo in cui i cristiani dovrebbero utilizzare i social media». Lo fa, però, senza adottare gli stilemi imperativi del classico “direttorio”. Tant’è che - leggiamo – le pagine di “Verso una piena presenza” «non intendono essere delle “linee guida” puntuali per il ministero pastorale in questo ambito. La speranza è invece quella di promuovere una riflessione comune sulle nostre esperienze digitali, incoraggiando sia gli individui sia le comunità ad adottare un approccio creativo e costruttivo».
Non è questa la sede per sintetizzare un documento complesso e ricco di molteplici spunti. Ci limiteremo a indicare alcuni aspetti interessanti (e qualcuno meno convincente). Decisamente coraggiosi, anzitutto, risultano essere un paio di passaggi relativi ad alcune prassi di utilizzo dei social in casa cattolica. Leggiamo al n.50: «Nei crocevia digitali come negli incontri personali, essere “cristiani” non è sufficiente. Sui social media è possibile trovare molti profili o account che proclamano contenuti religiosi ma non si lasciano coinvolgere nelle dinamiche relazionali in modo autentico. Interazioni ostili e violente, parole denigranti, soprattutto nel contesto della condivisione di contenuti cristiani, gridano dallo schermo e sono in contraddizione con il Vangelo stesso». Al n. 75, troviamo un richiamo non meno eloquente ed esplicito: «Dobbiamo essere cauti nel postare e condividere contenuti che possono causare malintesi, esacerbare le divisioni, incitare al conflitto e approfondire i pregiudizi. Purtroppo, la tendenza a lasciarsi trasportare in discussioni accese e talvolta irrispettose è comune negli scambi online. Il problema di una comunicazione e superficiale, e quindi divisiva, è particolarmente preoccupante quando proviene dalla leadership della Chiesa: vescovi, pastori e leader laici di spicco. Questi non solo causano divisione nella comunità, ma autorizzano e legittimano anche altri a promuovere un tipo di comunicazione simile».


Un altro aspetto opportunamente considerato è la duplice responsabilità che ciascuno di noi ha come utente di Internet (di qui il neologismo “prosumer”, sintesi di “produttori” e “consumatori” di informazione). «Tutti noi dovremmo prendere sul serio la nostra “influenza” – sottolinea “Verso una piena presenza” al n. 74 -. Ogni cristiano è un micro-influencer e dovrebbe essere consapevole della propria potenziale influenza, a prescindere dal numero di persone che lo/la seguono». Il che significa - ad esempio - che «per comunicare la verità, dobbiamo innanzitutto accertarci di trasmettere informazioni veritiere; non solo nel creare i contenuti, ma anche nel condividerli. Dobbiamo assicurarci di essere davvero una fonte attendibile». Sembra banale, ma quante volte abbiamo condiviso su Whatsapp articoli o news “in automatico” solo perché sicuri di averli ricevuti da amici e, dunque, da fonti affidabili?
Accanto a queste salutari indicazioni, pare invece decisamente debole l’analisi del contesto tecnologico ed economico in cui si muovono i GAFAM (acronimo ormai molto diffuso col quale si identificano Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft), mai citati esplicitamente nel documento. Al n.42 troviamo un timido cenno alla questione: «Le piattaforme social sono controllate da una “autorità” esterna, di solito un’organizzazione a scopo di lucro che sviluppa, gestisce e promuove le modifiche al funzionamento della piattaforma». Purtroppo il documento non sottolinea adeguatamente lo strapotere tecnologico ed economico di queste mega-aziende (ci sarà un motivo se sono chiamate anche OTT, ossia “Over-The-Top”!), che hanno mostrato di adottare comportamenti a dir poco disinvolti in ordine a gestione e controllo dei dati personali, il vero petrolio di oggi. Tali prassi perverse, che arrivano a minare le basi stesse sia della privacy che della democrazia, non sono distanti da quelle che un tempo la teologia cattolica definiva “strutture di peccato”. Che fare, allora? ll paragrafo n.58 suggerisce: «Il social web non è scolpito nella pietra. Possiamo cambiarlo. Insieme possiamo sollecitare le aziende dei media a riconsiderare il loro ruolo e lasciare che Internet diventi davvero uno spazio pubblico». Un po’ debole come risposta, perché qui si elude una questione fondamentale, ossia l’urgenza improrogabile di un intervento politico forte e ci si limita ad auspicare un’auto-riforma dei giganti del Web. Il che, a dirla tutta, appare nei fatti altamente improbabile.



