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Caro don Antonio, sembra sia impossibile farne a meno: dopo l’aziendalizzazione degli ospedali e delle scuole, assistiamo, inermi, all’aziendalizzazione delle parrocchie. I pochi preti rimasti anziché curare le anime, diventano dei manager, preoccupati più della programmazione che delle persone. Come si organizzano la tale festa, i tali gruppi, la tale funzione eccetera.
Tutte cose utili, per carità! Ma stiamo attenti, perché il termine azienda significa, alla lettera “cose da farsi”. Un attivismo che ricorda la Marta evangelica che, contrariamente a Maria, è continuamente preoccupata di come ci si debba comportare per fare bella figura. Ma è Maria che si è scelta la parte migliore, quella necessaria: l’ascolto di Gesù, il maestro, per la trasformazione del proprio essere. Questo è il rischio che si corre: trascurare le persone con le loro esigenze e peculiarità, in nome di un efficientismo volto, più che altro, all’apparire. E dunque a soddisfare il perverso desiderio di “sentirsi a posto”, tacitando la propria coscienza.
LUIGI
È un pericolo reale, quello di cui parli, caro Luigi. Pensare prima all’organizzazione, all’efficienza e poi alle persone. Mentre una parrocchia è fondamentalmente una «comunità di fedeli la cui cura pastorale è affidata a un parroco quale suo proprio pastore» (vedi Diritto canonico can. 515).
D’altra parte, però, la parrocchia stessa, come ogni altra realtà sociale, ha bisogno di strutturarsi per essere davvero al servizio delle persone. Si tratta, allora, di organizzarsi in maniera funzionale, con il contributo e la collaborazione di tutti. Per lasciare al parroco anche il tempo di dedicarsi a quello che nessun altro può fare al suo posto, come la celebrazione dei sacramenti e la cura dei fedeli attraverso l’ascolto. C’è poi una differenza essenziale rispetto alle aziende: non c’è nessuna ricerca del profitto, ma solo del bene dei fedeli.



