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Yara, nata in Libano, racconta che il viaggio è “un viaggio senza sapere che mi avrebbe cambiato la vita”. Dopo due settimane, quando è tornata a casa, si è ritrovata con “nuovi amici da tutto il Mediterraneo”, con “connessioni che hanno guarito il mio bambino interiore” e con la speranza – una speranza concreta – che i giovani siano davvero capaci di cambiare. Non per i discorsi teorici, dice Yara, ma per il modo in cui hanno vissuto, sofferto, riso, pianto insieme: “ciò che è iniziato come un dialogo attraverso le parole è finito come un dialogo attraverso le azioni”.
Hamdi, giovane tunisino, ha vissuto a Cipro un’esperienza di dialogo tra religioni che lo ha portato a riscoprire se stesso. Essere musulmano, dice, non è stato un ostacolo, ma una responsabilità che ha accettato con orgoglio in questo spazio di rispetto reciproco. Quando altri partecipanti hanno assistito alla sua preghiera musulmana, per curiosità o per rispetto, e lui ha partecipato a una messa cristiana, ha sentito che ciò che conta davvero è l’ascolto attivo. Non solo le grandi discussioni, ma i piccoli gesti — condividere un pasto, ridere, restare in silenzio — sono diventati momenti in cui il senso del dialogo si è incarnato.


Nosra, dalla Tunisia, spiega che la navigazione, la vita a bordo di un vascello d’epoca issando vele, affrontando il mare e la natura, le discussioni sui temi più urgenti — cambiamenti climatici, diritti delle donne, dialogo interreligioso, costruzione della pace — hanno amplificato la sua visione del mondo. Separata per alcuni momenti dalla continuità e dal conforto della vita “normale”, Nosra ha imparato che la semplicità può essere potente, che il contatto umano è cura, che il mare insegna a uscire dalla propria zona di comfort. E ha visto come tra fedi diverse emerga un terreno comune: non un’uniformità forzata, ma un rispetto vivo che costruisce ponti.
Diego, dalla Spagna, porta un’altra leva narrativa: è arrivato con “molte domande senza risposta” e riparte con nuove domande che lo accompagneranno per sempre. Ha scoperto, sulla barca, che la felicità non richiede molto: “a volte bastano gli amici, un compito che ci dia uno scopo, un posto dove dormire e qualcosa per nutrire il corpo e l’anima”. Le onde, il vento, la natura — i delfini, il plancton di notte — diventano rivelazioni: non importa in che Dio crediamo, se crediamo, ma come custodiamo il creato, come ci prendiamo cura del mare, come accettiamo l’altro. E ha visto che resistere, insieme, con le proprie diversità, è già un atto di pace.


Francesc, anche lui dalla Spagna, riflette sul confine tra ciò che è arbitrario (il luogo in cui nasci, la famiglia che ti tocca), e la tensione verso un senso della vita che non può che essere condiviso. Per Francesc, la fede non è un’àncora che toglie libertà, ma un orizzonte: non elimina l’assurdo della vita, ma offre un modo per camminare in mezzo a esso. Attraverso la migrazione, i confini, le sofferenze testimoniate, ha incontrato l’umanità che migra come qualcosa che chiede solo dignità, più che paura. Le contraddizioni del mondo lo feriscono, ma ha visto anche come, nel cuore della diversità, nella comunità fragile che si forma su una piccola barca, ci sia già un modello possibile di società umana nuova: non perfetta, imperfetta, ma profondamente umana.
Amina, dalla Bosnia ed Erzegovina, porta un tocco di contemplazione e interiorità che induce al silenzio. Fin dal primo momento, dice, ha capito che non si sarebbe trattato solo di attraversare il mare, ma di superare barriere personali. La prima sera, quando il mal di mare colpì e tutti si ritrovarono “malati e deboli”, fu un “reset” necessario. Poi impari ad adattarti, accettare ciò che non puoi controllare, apprezzare la bellezza delle albe, dei colori, delle stelle, capire che le risorse — cibo, acqua, energia — non sono scontate; metti l'altro prima di te stesso perché in ogni scelta la vita di tutti è intrecciata. Quando poi torni a terra, realizzi quanto il mare — per molti un confine o una minaccia — per te sia diventato scuola, specchio, cura: mancano le stelle, i tramonti, le notti silenziose, ma restano i sorrisi, gli sguardi, le lezioni di pazienza, umiltà, gratitudine. E quella consapevolezza che la pace comincia nei gesti, anche piccoli, gentili, quotidiani.


E ora, tutto ciò che questi giovani hanno vissuto e testimoniato confluisce nel tratto conclusivo Napoli-Marsiglia. Non come un’arrivederci, ma come una promessa: che le loro esperienze non rimangano relitti del passato, ma semi da piantare nei cuori delle loro comunità. Le loro voci ci dicono che la pace non è una costruzione astratta, ma una trama fatta di relazioni: di ascolto, apertura, condivisione, imprevisti, silenzi, risate, lacrime.
Quando Yara parla del “dialogo attraverso le azioni”, quando Hamdi racconta della preghiera condivisa, quando Nosra afferma che la navigazione è scuola di resilienza, quando Diego sente che la felicità non richiede molto, quando Francesc sfida l’idea dei confini come muri e Amina sceglie la gratitudine al ritorno: ecco il tessuto vivo di ciò che significa costruire pace. Non solamente la cessazione dei conflitti, ma la fine delle divisioni; non solo la retorica delle parole, ma la pratica dell’incontro.
La preghiera di Bari — «abbiamo bisogno di elevare insieme la voce verso il cielo» — assume, con queste storie, un corpo concreto. Non è eco vuoto, ma vibrazione: nelle mani che issano le vele, nei volti stanchi ma felici, nella consapevolezza che ogni alba portata dal mare è dono, e ogni porto toccato è responsabilità.


La Bella Speranza raggiunge il suo ultimo tratto. Napoli e Marsiglia saranno testimoni dell’esito visibile di un cammino invisibile: quello che ciascuno ha compiuto dentro di sé e con gli altri. Quando le vele saranno abbassate, non sarai solo un navigante che sbarca, ma una comunità che approda: con domande ancora da rispondere, speranze da accudire, impegni da portare a casa.
Perché ciò che queste testimonianze ci insegnano è che la pace non è un premio per chi vince, ma il frutto fragile della vulnerabilità condivisa; non l’assenza di conflitto, ma la presenza della giustizia, del rispetto, della conoscenza reciproca. Ogni giovane riportato a terra ha con sé una bussola: quella della speranza attiva — non attendista — che sceglie l’incontro, che accetta l’altro, che sa che il mare è troppo largo per separarci, troppo stretto per divideci.
E che la voce che si eleva verso il cielo non resti solo preghiera, ma promessa, azione, vita nuova.
Foto © Bel Espoir



