All’Università di Torino occupata per protesta contro la guerra a Gaza, viene organizzata la preghiera islamica del venerdì. Il sermone – il 17 maggio nei corridoi di Palazzo Nuovo con le studentesse separate da colleghi uomini da una rete – si trasforma in un invito a lottare contro lo Stato ebraico. Il rettore Stefano Geuna e la ministra dell'università e della ricerca Anna Bernini condannano pienamente l’accaduto. Il venerdì successivo la preghiera è annunciata al Politecnico, la procura diffida l’imam Brahim Baya e l’appuntamento viene annullato. Questa la cronaca, stringata, di quanto successo a Torino nelle scorse settimane. Fatti che necessitano di una riflessione: ne parliamo con monsignor Derio Olivero, presidente della Commissione episcopale per l'ecumenismo e il dialogo.
Monsignor Olivero, cosa l’ha colpita maggiormente dell’intera vicenda?
«La durezza del discorso dell’imam Baya. Non ha preso le distanze dal Hamas e non ha ricordato le vittime del 7 ottobre, parlando di Israele come di un nemico. Non approvo un discorso del genere pronunciato da chi ha un ruolo religioso».
Quale dovrebbe essere il ruolo delle religioni davanti alle guerre?
«Le religioni non dovrebbero prendere posizioni pro o contro, quanto creare coesione. Se affermiamo che siamo tutti figli di Dio, quindi fratelli, dobbiamo imparare a dirlo anche nella concretezza della vita e nelle tragedie. Sono fratelli i palestinesi e sono fratelli gli ebrei, le religioni devono generare fraternità e fratellanza, non aumentare la violenza».
Tra l’altro cattolici e musulmani hanno sottoscritto, nel 2019 ad Abu Dhabi, il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune…
«Esattamente. E proprio al Documento di Abu Dhabi dobbiamo ispirarci».
Ha fatto bene il rettore a chiedere di diffidare l’imam?
«Visto il taglio del discorso a Palazzo Nuovo, direi di sì. Mi ripeto ma trovo che il nodo sia questo: parlare solo di genocidio senza citare la violenza terroristica può solo suscitare altra violenza».
Cosa pensa della possibilità di organizzare una preghiera in ateneo?
«L’università non mi pare il luogo più adatto per una preghiera, meglio un discorso argomentato su tematiche di interesse generale. Da esponenti religiosi occorre entrare in punta di piedi negli spazi laici, senza pretendere di imporsi. Non è timidezza ma rispetto. Le dichiarazioni confessionali non servono. Le religioni possono portare un rilevante contributo al dibattito pubblico: sarebbe un guadagno per tutti, certamente sempre nei criteri della democrazia e della laicità».
Dopo la diffida l’imam Baya ha dichiarato che «il problema è l'islamofobia di questo Paese». Lei cosa ne pensa, vede segnali di islamofobia in Italia?
«Qua e là, ma si tratta di frange: politici e cittadini che vivono la paura di essere islamizzati e praticano atteggiamenti di difesa. Non mi pare che in Italia l’islamofobia sia generalizzata. Certo se aumentassero gli atteggiamenti usati da Baya potrebbe davvero aumentare la paura e quindi la violenza di reazione. Il 25 giugno ho convocato a Roma un incontro dei responsabili delle religioni in Italia: come dice il Papa in Evangeli gaudium l’ecumenismo e – aggiungo io – il dialogo interreligioso, sono un apporto per unità della famiglia umana. Dobbiamo andare in controtendenza: non dobbiamo giocare a difendere noi stessi ma accrescere la coesione sociale».